Il 5 di ogni mese, 5 libri per tutti i gusti: BookAdvisor è la rubrica dove vi consigliamo ciò che ci è piaciuto di recente, tra novità e qualche riscoperta.
Un animale selvaggio, Joël Dicker (La Nave di Teseo) – recensione di Matilde Elisa Sala
Ginevra, 2 luglio 2022. Due ladri mettono a segno una rapina in una famosa gioielleria della città. Venti giorni prima, Sophie Braun si sta preparando per festeggiare il suo quarantesimo compleanno, in compagnia del meraviglioso marito Arpad e dei loro due figli, Léa e Isaak. I Braun sembrano la famiglia perfetta, ammirati e invidiati da tutti, soprattutto dai due vicini Karine e Greg. Quest’ultimo, soprattutto, ne è ossessionato. Nulla sembra poter turbare il loro equilibrio. Ma una valigia di segreti e un uomo misterioso, vecchio amico dei tempi passati, arrivano presto a bussare alla loro porta. Come ben si sa le vicende passate, che si voglia o meno, avranno sempre delle ripercussioni sul presente, per quanto si cerchi di limitare i danni.
Un animale selvaggio è, senza dubbio, una delle uscite più attese dell’anno e Dicker dimostra ancora una volta di essere uno dei migliori giallisti contemporanei. Il romanzo è un thriller meraviglioso, costruito con una trama intricata e ricca di colpi di scena, nonostante la sua “brevità” rispetto agli altri libri dell’autore (di questo ne soffriranno i suoi lettori più fedeli). Ogni personaggio protagonista viene analizzato nella sua interiorità, tutti loro ispirano grande fiducia e regalano certezze pronte a essere smentite subito dopo. Un capitolo tira l’altro, dall’inizio alla fine perché la prosa è scorrevole, chiara e lineare e il contenuto assolutamente impeccabile. Fidatevi: una volta cominciata la lettura, sarete costretti a rivedere i vostri programmi per le successive quarantotto ore. È letteralmente impossibile posare il libro!
Io ero il Milanese. La storia dei miei errori e della mia rinascita, Lorenzo S., Mauro Pescio (Mondadori) – recensione di Clara Molinari
«Come quando avevo deciso di fare il rapinatore, in quell’istante decisi che avrei fatto di tutto per innescare un cambiamento positivo nella mia vita». È la storia di Lorenzo – il Milanese – raccontata attraverso le essenziali ma decise parole di Mauro Pescio. È la storia di un uomo che ha fatto ingresso in carcere per la prima volta quando aveva solo dieci giorni, per andare a trovare il padre. A dodici anni Lorenzo compie la sua prima rapina e a quattordici finisce dietro le sbarre del carcere minorile, rendendosi protagonista di una storia che sembra già scritta e vissuta. «Immerso in quella violenza rafforzai le mie convinzioni […]. Quella era la mia strada e quello volevo fare: il rapinatore». Convinzioni che crescono e si sedimentano, si rafforzano fino a radicarsi in quella che diventa una spasmodica alternanza tra ingressi e uscite dal carcere. L’amore per una donna, l’affetto per suo figlio sono solo contorno, una flebile musica di sottofondo.
La rivoluzione arriva per Lorenzo all’età di trentacinque anni. Nessuna causa scatenante, solo un insieme di gradini interiori scalati passo dopo passo. L’ingresso nella redazione di Ristretti Orizzonti del carcere di Padova, il costante confronto con Ornella (la direttrice della rivista) e con gli altri membri della redazione, il rapporto di stima reciproca instaurato con il magistrato di sorveglianza: è questa la cornice entro cui si fa strada il cambiamento di Lorenzo. «Sentii che le persone, Ornella, la mia educatrice, perfino le istituzioni mostravano fiducia nei miei confronti e scoprii che il sentimento della fiducia era un motore potentissimo». Un sentimento discreto e sottile ma dotato di forza straordinaria: è stato questo il motore della rivoluzione di Lorenzo. Così poco, verrebbe da dire, per così tanto.
Dopo anni trascorsi tra i pochi metri quadri di una cella, il Milanese – a soprannominare quelle vesti di delinquente che Lorenzo ha indossato per anni – alla fine muore, lasciando spazio alla vita di un uomo diverso, libero materialmente, ma soprattutto spiritualmente. Oggi Lorenzo lavora come mediatore penale e sociale esperto in giustizia riparativa. E la sua storia, custodita tra le parole messe su carta da Mauro Pescio, rimane la storia di un uomo che ha saputo fare del suo passato una risorsa, messa a disposizione di una causa più grande, che eccede la singola vicenda per abbracciare quella di tanti. Una storia che chiede e merita di essere conosciuta.
Il faraone d’Olanda, Kader Abdolah (Iperborea) – recensione di Nina Fresia
La mummia di un’antica regina è nascosta nella cantina di un egittologo olandese sulle rive del Vliet e deve essere urgentemente riportata a casa. Da queste premesse ci si aspetterebbe di imbattersi in un libro di grande avventura e mistero. In realtà, è la storia di due anziani signori che testardamente vogliono portare a compimento questa missione nonostante l’età e i segni che il tempo ha inciso su di loro.
Herman Raven (che adotta lo pseudonimo arabo di Zayed Hawass) è una celebrità nell’ambito dello studio dell’Antico Egitto, patria del fidato amico Abdolkarim Qasem. Il rinomato professore ha però ormai perso gran parte della sua memoria con la senilità: si smarrisce spesso per strada, conduce una vita abitudinaria ed è costantemente monitorato dalle persone care. L’unica cosa che non sembra aver scordato è il profondo legame con l’amico egiziano e il prezioso reperto custodito nella sua cantina.
La scrittura del libro, semplice e senza fronzoli, descrive in modo asciutto e talvolta schematico le giornate di Abdolkarim e Herman: alle inevitabili ripetitività della vita dei due pensionati si aggiungono le piccole e assurde peripezie che affrontano per trasferire la mummia. I vuoti di memoria e le immagini del passato che si confondono nelle menti dei due anziani avvolgono poi la storia in un indecifrabile velo di mistero. La genuinità dei dialoghi e dei sentimenti provati dai personaggi trasmettono la più onesta delle amicizie: quella tra due uomini tornati improvvisamente bambini che si aggrappano l’uno all’altro nello sforzo di imprimere nella più ampia storia dell’uomo il loro umile contributo.
La vendetta dei bibliotecari, Tom Gauld (Mondadori) – recensione di Emanuele Rossi Ragno
Se siete appassionati di libri e sognate di lavorare nel mondo dell’editoria, Tom Gauld è uno dei nomi che potreste aver incrociato nei vostri feed di Instagram o Twitter. Attivo dagli anni Duemila, il fumettista scozzese è noto per le sue strisce e vignette pubblicate su Guardian, New Scientist Magazine, New Yorker e New York Times, molto spesso incentrare sull’industria del libro e sui cul-de-sac della critica letteraria. La vendetta dei bibliotecari) è la sua raccolta più recente, e mantiene alto il livello qualitativo delle precedenti. Gauld si riconferma un attento osservatore del panorama letterario odierno, che tra booktoker, fondi di magazzino e dibattiti su cancel culture, politicamente corretto e intelligenza artificiale, sembra perdere di vista i libri veri e propri, su cui invece dovrebbe fondarsi l’industria culturale.
Le sferzate satiriche dell’autore scozzese colpiscono tutti gli attori in gioco, dagli editori poco attenti alla qualità (con un occhio ai gusti del pubblico e l’altro alle vendite), ai cosiddetti “lettori forti”, spesso poco fedeli al loro epiteto, che mentono sul numero delle opere lette o si vergognano di acquistare solo romanzi. Le narrazioni da una pagina contenute ne La vendetta dei bibliotecari stupiscono soprattutto per la varietà delle soluzioni messe in campo.
Gauld alterna vignette-gioco (pensate come labirinti o interfacce di un videogame, che il fruitore deve “completare” per ridere della battuta), infografiche simulate sull’incerto futuro dell’editoria, e strisce più canoniche dove l’ironia scaturisce dal montaggio.
Mischiando riferimenti alti e bassi (Samuel Beckett e le videochiamate, Werner Herzog e le uova di Pasqua, l’Apocalisse e gli audiolibri), Gauld si fa beffe dei meccanismi secolari alla base della narratività. Topoi e archetipi, che alla lunga rischiano di diventare cliché, nella produzione dell’autore scozzese collidono e rivivono nella loro essenza elementare di funzioni proppiane messe a nudo. Il disegno è quindi per forza di cose spoglio e minimale, quel tanto che basta per arrivare a tutti, senza per questo scadere in un’estetica anonima o dozzinale.
La piccola libreria sul Tamigi, Frida Skybäck (Giunti) – recensione di Michela De Marchi
Un nuovo inizio, in un’altra nazione lontana dalla propria patria: è ciò che accade, inconsapevolmente, a Charlotte Rydberg, protagonista de La piccola libreria sul Tamigi. Dalla morte del suo grande amore, Alex, Charlotte si è immersa completamente nel lavoro, continuando l’attività dell’azienda che i due avevano fondato insieme in Svezia. Credendo di potersi rinchiudere nella piccola bolla che si era creata, Charlotte conduce ormai una vita vuota, ma a cambiare i suoi piani è una lettera di un avvocato londinese.
Scopre così di essere l’ereditaria di un palazzo e della libreria sottostante, a Londra, appartenuti in passato a Sara, sorella di Kristina, la sua defunta madre. A causa dei difficili rapporti famigliari, Charlotte non ha mai conosciuto la zia e non sa nulla della sua vita, ma si ritrova a vivere a Londra: un città vittoriana che differisce totalmente dalla sua solita Svezia. Dall’idea iniziale di rimanere solo qualche settimana, i suoi piani cambiano grazie all’affetto che inizia a provare per la libreria, portata avanti da Martinique e Sam, a un probabile nuovo amore e alla voglia di scoprire la storia che si cela dietro alla sua famiglia. La piccola libreria sul Tamigi permette di immergersi in un racconto caratterizzato da sofferenza, lutti e difficoltà, ma anche da amicizia, piaceri quotidiani della vita e dalla possibilità, che ognuno di noi ha, di rinascere.
Il lettore, nel corso delle pagine, scoprirà di più su Charlotte, un personaggio che con il tempo impara ad aprirsi ancora al mondo, su Sara, sul particolare rapporto con la sorella Kristina, su Martinique e sulla piccola libreria. Un libro che, nella sua semplicità, trasmette un messaggio positivo e di speranza, insegnando come anche davanti ai dolori più strazianti, si possa ritrovare uno spiraglio di luce.