Del: 29 Maggio 2024 Di: Leonardo Donatiello Commenti: 0

A tutti sarà capitato durante il proprio percorso scolastico di assistere a quella che viene comunemente chiamata “lezione frontale”. Anzi per molti questa è stata l’unica modalità d’insegnamento ricevuta. 

Il professore o la professoressa entrava in classe e spiegava la lezione dal manuale, leggendo o sintetizzando quello che vi era scritto, nella gran parte dei casi senza coinvolgere l’alunno/a e senza chiedersi se quest’ultimo/a apprendesse o meno attraverso quella tipologia d’insegnamento. Ad oggi però il rapporto studente-insegnante necessita assolutamente di un rinnovamento, non solo perché l’educazione scolastica deve poter includere al suo interno tutte le tipologie di apprendimento possibili, ma anche perché il mondo intorno a noi è cambiato, e la scuola deve potersi aggiornare. 

Per renderci più chiari molti degli argomenti qui appena accennati, abbiamo deciso di intervistare la professoressa Beatrice Del Bo dell’Università degli Studi di Milano. Docente di Didattica della storia e di Storia economica e sociale del Medioevo, a inizio anno ha pubblicato il suo libro Didattica della storia. Insegnare storia in modo inclusivo e innovativo. Inclusione e innovazione sarebbero forse le parole chiave per riassumere questa breve intervista, ma come vedremo i termini, senza un contesto che li esplicita, non assumono alcun significato, soprattutto quando si vuole spiegare un argomento. 

Per incominciare, vorremmo chiederle che cosa intende lei con il termine didattica aperta, e a questo riguardo come si possano integrare e includere vari tipi di apprendimento durante una lezione.

«Quello che si dovrebbe fare, avendo a disposizione un certo numero di ore, è cercare di proporre vari tipi di metodologie didattiche e vedere quali di queste sono più efficaci. Come dice giustamente lei, ognuno di noi ha delle modalità di apprendimento che passano attraverso canali diversi. Si può essere per esempio più sensibili alla comunicazione orale-frontale perché questa ci consente di non metterci in gioco. Al contrario quando utilizziamo una modalità didattica interattiva potremmo creare imbarazzo a coloro che sono timidi. Per cui potrebbe aver senso fare una parte di lezione frontale, una parte di lezione interattiva in cui si chiede la partecipazione degli studenti e delle studentesse, una parte basata per esempio sulle immagini, che soprattutto nel caso specifico della storia sono fondamentali e infine una parte in cui si coinvolgono direttamente gli alunni e le alunne con delle attività vere e proprie. 

Quest’ultime sono secondo me quelle più efficaci dal punto di vista dell’apprendimento e dell’inclusione. Inoltre è importante sottolineare che l’obiettivo di chi insegna non è quello di far divertire le persone che apprendono, ma di far imparare divertendosi. In questo senso riuscire a trasmettere la passione per la propria disciplina risulta determinante. Successivamente quello che si dovrebbe fare è cercare di preparare la classe, o meglio emozionarla, verso l’ascolto. Per riuscirci bisogna essere inclusivi sia a livello linguistico, ricordandosi di utilizzare non solo il maschile ma anche il femminile, sia tenendo in considerazione che nella classe ci potrebbero essere delle persone che non vedono o non sentono bene. A questo proposito si dovrà avere l’accortezza, se proiettiamo delle immagini, di descrivere bene quello che stiamo mostrando e di proporre dei materiali di corredo che abbiano un audio incluso. È un lavoro difficile quello dell’insegnante, può diventare più difficile se vogliamo essere più inclusivi, ma allo stesso tempo molto più efficace se il nostro obbiettivo è quello di insegnare qualcosa.»

Al di là dell’inclusività, considerando che nei licei non è sempre facile farsi ascoltare dagli studenti e dalle studentesse, vi sono altre tecniche che possano preparare all’ascolto?

«Secondo me bisogna far vedere che si conosce il loro linguaggio, che non si è contrari ai loro strumenti tecnologici. Non possiamo impedire a chi studia di utilizzare il telefonino. Invece che demonizzarlo dobbiamo insegnare loro che questo può essere un buono strumento didattico. Lo smartphone può assumere così una dimensione diversa nella loro esistenza. Loro del resto stanno al telefono non solo per divertirsi, ma anche per informarsi. È importante cercare di capire che cosa gli studenti e le studentesse utilizzano nella loro quotidianità, che cosa guardano e a che cosa si interessano, per poi fare uso di quegli stessi canali. A questo proposito potrebbe essere utile fare delle esercitazioni con Instagram. Per esempio si potrebbe dire agli alunni e alle alunne di leggere alcune pagine del manuale e di integrare lo studio con quattro profili Instagram che si occupano dello stesso argomento. In questo modo la disciplina che si sta studiando può risultare più divertente.»

Visto che ha introdotto l’argomento, perché questo tipo di didattica innovativa, che fa uso della multimedialità, non viene sperimentata a scuola?

«Penso che non venga sperimentata perché ci vuole molto impegno da parte del docente nel proporre nuove modalità di apprendimento che facciano uso di questi mezzi. Ci vuole poi una competenza, uno studio approfondito dello strumento tecnologico o del social network che si vuole utilizzare per la lezione. Infine vi è bisogno di tempo, tempo che deve essere impiegato per pensare a un’esercitazione che funzioni e per recuperare tutto il materiale necessario. È indubbiamente molto più comodo fare una lezione frontale basata esclusivamente sul manuale. Io comunque parlo da una posizione privilegiata, perché insegnando all’Università, mi confronto con persone che sono tendenzialmente interessate all’argomento che sto illustrando. Bisogna rendersi conto che forse i professori e le professoresse hanno perso la passione per l’insegnamento, tra tutte le incombenze burocratiche e le mortificazioni che subiscono.»

Un esempio di didattica innovativa che fa largo uso della multimedialità e di un linguaggio più vicino ai giovani, è senza dubbio quello del podcast. A questo proposito, durante il corso di Didattica della Storia 2023/2024 tenuto dalla professoressa Beatrice Del Bo, le studentesse e gli studenti dell’Università degli Studi di Milano, hanno realizzato e ideato un podcast a tema storico. 

Dopo una votazione e la divisione dei ruoli, l’argomento che è stato scelto e che ha fatto da sfondo a tutto il progetto è stato la Cordoba medievale. Da qui è nato il nome Cordocast, titolo del podcast. Lo scopo di partenza era quello di raccontare i protagonisti e le dinamiche della città, unica per la sua varietà di culture e religioni. Il lavoro è iniziato con l’individuazione di personaggi realmente esistiti tra il IX e l’XI secolo e vissuti a Cordoba, utilizzando testi e fonti storiche. Un criterio fondamentale per la selezione dei personaggi è stata la disponibilità di documenti e l’assenza di una loro pagina Wikipedia in italiano. Quest’ultima infatti sarebbe stata direttamente creata da una parte delle studentesse e degli studenti, e avrebbe funto da fonte aggiuntiva per la sceneggiatura del podcast. 

Una volta finito il lavoro con Wikipedia la sezione della classe incaricata della sceneggiatura ha iniziato a scrivere dei dialoghi, con il fine di far comunicare tra loro i cittadini della Cordoba del tempo. Infine durante la fase di registrazione, le battute sono state interpretate dai restanti alunni e alunne del gruppo, che hanno deciso di prestare la propria voce.

Il podcast è stato un esempio di cooperative learning: la professoressa ha fornito indicazioni e supporto iniziale, ma poi le studentesse e gli studenti, con le loro diverse competenze (dalla scrittura alla recitazione, fino alle abilità tecniche e grafiche), hanno collaborato per portare a termine il progetto.

Anche su questo tema abbiamo chiesto alla professoressa Beatrice Del Bo un proprio parere.

Per quanto riguarda uno strumento moderno come il podcast, pensa che questo possa davvero avere dei fini didattici?

«Il podcast mi sembra che oggi possa essere forse lo strumento più vincente per la didattica. La sfida principale è trovare un argomento che sia adatto e che abbia anche un aggancio con l’attualità. Per quanto riguarda la storia, un buon podcast dovrebbe trasmettere sia delle conoscenze storiche che delle consapevolezze culturali. Chi insegna non trasmette solo informazioni, ma anche dei valori, e ha grandi responsabilità. Il podcast oggi è forse uno degli strumenti più diffusi per quanto riguarda lo svago, ma anche per la conoscenza. Si ascoltano podcast per divertirsi, ma anche per informarsi, e spesso questi ultimi possono essere altrettanto divertenti.»

Come può essere utilizzato nelle scuole, considerando i pochi mezzi e tempi a disposizione?

«Richiede un grande impegno da parte del docente. Oggi molte scuole sono dotate di strumenti per registrare e realizzare un podcast, o possono ottenerli tramite i contatti di cui dispongono. Il podcast non deve essere solo prodotto, può anche essere semplicemente ascoltato. Si possono selezionare podcast da far ascoltare in classe e poi commentarli. Far ascoltare un podcast, che l’insegnante ha già controllato, come strumento per affinare lo spirito critico (ovvero rintracciare eventuali errori o imprecisioni), può essere molto più efficace rispetto a una lezione passiva, stimolando la partecipazione attiva degli studenti e delle studentesse.»

Che vantaggi ci sono nell’utilizzarlo in classe?

«Secondo me, tra gli strumenti disponibili oggi, il podcast è il più inclusivo. Permette agli studenti e alle studentesse di capire e apprezzare il lavoro che sta dietro a qualcosa che usano quotidianamente. Inoltre, un’esperienza di questo tipo consente di acquisire competenze utili per il futuro e di far emergere i talenti di tutti i membri del gruppo classe. Ciascuno ha talenti che, grazie al podcast, possono essere valorizzati: chi sa scrivere, chi è portato per la teatralizzazione, chi sa recitare, chi è bravo nella grafica o nella comunicazione, ecc. Non è necessario parlare, ma è un’opportunità per scoprire e valorizzare le capacità di tutti. Un aspetto determinante è il ‘cooperative learning’, ovvero l’imparare insieme. Si apprende molto di più acquisendo le competenze dai colleghi; in questi casi diventa più semplice imparare dai pari che da un insegnante. Imparare tutti assieme, valorizzando i talenti di ciascuno. Inoltre si arriva alla creazione di un prodotto concreto, realizzato dagli studenti stessi, cosa che può essere motivo di grande orgoglio.»

Per concludere e integrare ciò che è stato detto dalla professoressa Beatrice del Bo, abbiamo deciso di chiedere a due studenti del corso di Didattica della Storia, Marco e Giona, il loro punto di vista sul progetto Cordocast.

Cosa ne pensate della realizzazione di un podcast a lezione? Avete apprezzato questa esperienza didattica?

Marco: «Secondo me è stata una bella iniziativa, anche se inizialmente ero molto scettico. Alla fine, però, per il modo in cui è stato strutturato e realizzato il tutto, si è rivelata un’ottima occasione per approcciarsi in maniera diversa alla didattica. Inoltre, la collaborazione e il confronto con i pari sono stati significativi e piacevoli.”

Giona: «Ho trovato questa esperienza utile per conoscere uno strumento molto utilizzato. Si possono comprendere i limiti e le potenzialità dei podcast. L’unico problema è che la realizzazione richiede competenze tecniche di un certo livello. Anche se si può imparare da soli e arrangiarsi, bisogna comunque investire molte ore per capirne il funzionamento. Questo è, a mio avviso, il problema principale, che rende l’inizio più difficoltoso rispetto ad altri esperimenti didattici, come Wikipedia.»

Per voi è possibile applicare questo metodo, o in generale altre modalità più pratiche che teoriche, nelle scuole?

Marco: «Secondo me sì, ma ovviamente la componente teorica resta fondamentale e insostituibile. Questi metodi sarebbero dei plus alla didattica tradizionale, per renderla più moderna. Tuttavia, non so quanto possano essere applicati a scuola, visto lo scarso monte ore. Comunque come strumento, può essere molto utile e interessante. Il vero problema, a mio avviso, è che si potrebbe finire per abituare gli studenti e le studentesse a un tipo di insegnamento che poi nelle università non esiste, dove incontreranno quasi esclusivamente lezioni frontali e manualistiche.»

Giona: «Parlando per la mia esperienza personale, anche se universitaria, la frequentazione delle lezioni spesso non aggiunge molto, poiché molti insegnanti si limitano a fare lezioni frontali ricalcando i manuali. Invece, esperienze come queste, rendono effettivamente utile e arricchente frequentare le lezioni. Penso comunque che sia difficile realizzare una didattica “laboratoriale” di questo tipo, servono tante ore di programmazione, lavoro e impegno. Impegno che però, a mio avviso, è doveroso, perché la scuola non deve essere solo un luogo di apprendimento nozionistico, ma anche un luogo dove si impari a essere una persona adulta e responsabile. Un approccio didattico di questo tipo potrebbe essere utile per dare maggiori responsabilità e valore agli studenti e alle studentesse.»

Queste testimonianze non possono far altro che nutrire ancora di più un dibattito complesso sulla scuola e sulle tipologie di insegnamento. In questo caso è stata data una direzione: la scuola del futuro ha la necessità, come detto all’inizio dell’intervista, di puntare sull’inclusione e sull’innovazione, termini che grazie alla professoressa Del Bo, Giona e Marco, sono ora stati contestualizzati. 

In conclusione, per chi fosse interessato, alleghiamo il link della pagina Instagram di Cordocast.

Leonardo Donatiello
Laureato in storia, attualmente frequento la facoltà di scienze storiche. Mi reputo una persona pacata e tranquilla, ma stranamente mi attrae il disordine. Non è dunque un caso che io sia un grande fan della Prima repubblica. Nel tempo libero mi occupo di politica e sport principalmente, ma ho anche un debole per la musica hip hop.
Luca Gualazzi
Studente dell’ultimo anno di Scienze Storiche. Oltre che a storia mi interesso anche a film, attualità e sport.

Commenta