In vista delle prossime elezioni europee, che si terranno in Italia tra l’8 e il 9 giugno 2024, la redazione di Vulcano Statale approfondisce la storia, l’apparato istituzionale e il contesto politico dell’Unione Europea.
Il Manifesto di Ventotene, 1941
Anno 1941, Ventotene: un’isola nel Tirreno, al largo del Lazio, selezionata nel 1930 come luogo di confino per gli oppositori politici.
Il regime fascista era al potere dal 1922. Nel 1925-’26, con il varo delle cosiddette “Leggi fascistissime”, il potere era stato accentrato nella nuova figura del Capo di governo e ogni forma di dissenso era stata rimossa: i partiti e sindacati antifascisti erano stati sciolti, gli scioperi vietati, le pubblicazioni censurate, ed era stato istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
A partire dal 1939, per iniziativa di Arturo Bocchini, capo della polizia, Ventotene divenne una vera e propria colonia confinaria, destinata alla reclusione di militanti antifascisti di ogni indirizzo politico:
italiani comunisti, socialisti, anarchici, membri del gruppo di Giustizia e Libertà (GL) – fondato da Carlo Rosselli ed Emilio Lussu – ma anche cittadini stranieri provenienti dai territori occupati, prevalentemente in area balcanica.
Proprio a Ventotene, grazie all’inedita convergenza di intellettuali e attivisti politici nonché alla realizzazione, nel corso degli anni, di alcune biblioteche (anche clandestine), si consolidò e sopravvisse lo spirito antifascista, che avrebbe animato la classe dirigente nel dopoguerra.
E proprio a Ventotene – ricordata anche come «l’Università del confino» – nel 1941, Altiero Spinelli (fuoriuscito dal PCI nel 1937, in quanto contrario alle violenze staliniste) ed Ernesto Rossi (membro di GL e tra i fondatori del giornale clandestino Non mollare!) elaborarono Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, meglio noto come Manifesto di Ventotene.
Tale testo è stato ed è considerato un cruciale punto di riferimento per l’ideale – mai realizzato – di un’Europa federata.
Si era allora ancora lontani dall’integrazione europea: la guerra sarebbe durata altri 4 anni e solo nel 1950 si sarebbe infine costituito il primo nucleo della futura Unione Europea, la CECA (Comunità economica del Carbone e dell’Acciaio).
Istituita con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, la CECA si configurò quale primo passo verso la realizzazione di un’organizzazione sovranazionale: l’iniziale obiettivo, meramente economico, di creare un mercato comune per la circolazione di carbone e acciaio e di agevolare in tal modo la ripresa economica degli Stati europei, implicava tuttavia anche un superamento dei sospetti reciproci tra gli Stati coinvolti e soprattutto tra Francia e Germania Ovest. Ad aderire furono anche Italia e Paesi Benelux, cioè Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo.
Ma, nonostante le importanti implicazioni della CECA sul piano politico e l’inizio di un percorso che nel tempo avrebbe portato all’istituzione dell’Unione Europea come oggi la conosciamo, sarebbe fuorviante indicare nel Manifesto di Ventotene il documento fondante del nostro presente. Gli obiettivi prefissati da Rossi, Spinelli e dagli altri intellettuali antifascisti che contribuirono alla stesura, tra cui il curatore dell’edizione clandestina Eugenio Colorni, rimangono infatti ampiamente irrealizzati.
Il Manifesto, incentrato sulla necessità di realizzare una federazione tra gli Stati europei, come garanzia per un futuro di pace internazionale, venne diviso in tre parti:
«La crisi della società moderna» e «I compiti del dopoguerra. L’unità europea» (scritte da Spinelli), «I compiti del dopoguerra. La riforma della società» (scritte da Rossi).
Mentre l’ultima sezione, quasi dimenticata, si concentra sulla futura «rivoluzione europea» di carattere socialista, volta a realizzare «l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita» e rispetto alla quale «un’Europa libera e unita è premessa necessaria», sono soprattutto le prime due sezioni ad essere oggi punto di riferimento per chi si pone come obiettivo il superamento delle tendenze sovraniste all’interno dell’UE.
Avviando il discorso a partire da un’analisi del proprio contesto storico-politico, Rossi e Spinelli individuarono nell’estremizzazione del «nazionalismo imperialista» la radice delle guerre mondiali:
L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro il territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali […] La sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo “spazio vitale” territori sempre più vasti.
Di qui la proposta di una possibile soluzione per garantire un futuro di pace internazionale: la limitazione della sovranità dei singoli Stati nazione all’interno di una federazione europea, gli «Stati Uniti d’Europa».
Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli Stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa.
E proprio a fronte dell’aggressività della Germania hitleriana, appariva indispensabile la realizzazione – ancora estremamente attuale nel dibattito pubblico – di un sistema difensivo comune.
Alla prova, è apparso evidente che nessun paese d’Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a nulla valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi, tipo della Società delle Nazioni, che pretendano di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti […] Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente […] che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione.
Nell’agosto 1943, ancora una volta per iniziativa di Rossi e Spinelli, venne inoltre fondato il Movimento federalista europeo (MFE):
tutt’ora attivo, il MFE rivendica di avere nei decenni «contestato l’impostazione funzionalistica della Comunità europea, contrapponendole la necessità di procedere alla nascita di una vera unità politica attraverso un processo costituente […] Anche oggi è impegnato per riformare le istituzioni dell’attuale Unione europea, con l’obiettivo di creare un’unione politica di tipo federale, con poteri di bilancio, una difesa unica, una politica estera, dando poteri legislativi adeguati al Parlamento europeo».
Il MFE decise di prendere posizione anche negli anni ’50, quando all’orizzonte andava profilandosi il progetto, rimasto incompiuto, di costituire una Comunità Europea di Difesa.
La Comunità Europea di Difesa (CED)
Con lo scoppiare della Guerra di Corea nel 1950 – interrotta con un armistizio ma senza alcuna pace nel luglio 1953 – andava infatti profilandosi il rischio di uno scontro aperto tra USA e URSS: montavano le preoccupazioni intorno allo status della Germania, come la Corea divisa e assoggettata al controllo contrapposto delle due superpotenze e dunque potenziale teatro di conflitto.
Lo stesso Konrad Adenauer, all’epoca cancelliere della Germania Ovest, evidenziò allora la necessità per la Repubblica Federale Tedesca di meglio presidiare i propri confini e di istituire un corpo di polizia federale. Gli Stati Uniti del Presidente Truman e la Gran Bretagna di Churchill espressero il proprio favore nei confronti della realizzazione di un sistema difensivo europeo: Churchill si fece promotore di un progetto volto alla realizzazione di un vero e proprio esercito comune.
Si poneva tuttavia il problema del riarmo tedesco che, alla luce dell’aggressività dimostrata dal Reich in occasione della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, avviate rispettivamente dall’invasione tedesca del Belgio e della Polonia, era fortemente osteggiato dagli altri Stati europei e soprattutto dalla Francia.
L’8 settembre 1950, il Presidente Truman approvò il piano one package, volto alla creazione di un’esercito europeo integrato, che avrebbe implicato anche la partecipazione di truppe tedesche, e sottoposto al comando statunitense.
Ad opporsi nettamente al progetto fu però il ministro degli Esteri francese Robert Schuman, non disposto ad accettare il rischio di un riarmo della Germania. La soluzione fu allora trovata dal politico francese Jean Monnet, che propose di vincolare il riarmo tedesco ad un controllo sovranazionale, su modello della neonata CECA: gli eserciti europei sarebbero stati sottoposti a istituzioni comuni sovranazionali, nel quadro di una Comunità Europea di Difesa.
Il progetto, accettato da Schuman e dal Primo ministro francese René Pleven, confluì dunque nel cosiddetto Piano Pleven, cui aderirono tutti i membri della CECA con l’eccezione dei Paesi Bassi, che rimasero inizialmente osservatori.
La successiva Conferenza di Parigi, convocata nel gennaio 1951, fu tuttavia lunga e complessa, ed evidenziò da subito la mancanza di un accordo tra i principali leader europei e gli Stati Uniti. Fu in quei mesi che i principali movimenti federalisti europei fecero pressione per ottenere il superamento di un modello meramente funzionalista, in direzione di una vera e propria federazione degli Stati d’Europa e del superamento del principio di sovranità.
Lo stesso Altiero Spinelli inviò un promemoria all’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, evidenziando l’impossibilità di realizzare la CED senza prima costituire uno Stato federale europeo.
L’episodio è ricordato ancora oggi dal MFE italiano, come momento cruciale del proprio attivismo: De Gasperi infatti intervenne nel corso dell’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa e dell’incontro tra i 6 ministri degli Esteri coinvolti, riuscendo a far inserire nella bozza del trattato istitutivo della CED la possibilità di realizzare una Comunità politica europea.
Il Trattato finale parve in grado di soddisfare tutti, sia i membri della CECA sia USA e Gran Bretagna. E tuttavia era ancora necessaria, per l’entrata in vigore, la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali: tra 1952 e 1954, i Parlamenti di Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Germania approvarono il Trattato.
Ma nel 1954, la maggioranza dei partiti riuniti nell’Assemblée nationale – da gollisti e nazionalisti a comunisti, socialisti e repubblicani – espresse voto contrario.
Cadde così definitivamente il progetto per una Comunità Europea di Difesa che, dopo l’interruzione della Guerra di Corea e la morte del leader sovietico Josif Stalin (5 marzo 1953), appariva del resto meno urgente e necessaria. Con esso fu abbandonata anche la creazione di una Comunità politica europea.
De Gaulle e la crisi della sedia vuota
Quando il ministro francese Schuman fece nel 1950 la celebre dichiarazione (ancora oggi ricordata ogni 9 maggio) in cui auspicava l’integrazione europea per «l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania», parlava rispettivamente della Quarta Repubblica francese parlamentare e di una Germania Ovest federale, guidata da Adenauer.
La CECA, una volta entrata in vigore nel 1952, si dimostrò effettivamente imperniata sull’asse franco-tedesco (talvolta definito “renano”). Ciononostante, come già evidenziato, fu di lì a poco proprio l’ostilità del Parlamento francese (alla cui guida era tornato il radicale Herriot, dopo la parentesi dell’occupazione nazista) a determinare il fallimento dell’esercito comune (CED).
Nonostante l’idea della CED provenisse proprio dall’ex-primo ministro francese Pleven e fosse sostenuta da un suo successore, il conservatore Laniel, a schierarsi contro l’esercito comune fu soprattutto dal 1953 la figura di De Gaulle.
Superata la crisi ed entrata invece in vigore la CEE nel 1958, quello stesso anno De Gaulle divenne premier e poi presidente di una Quinta Repubblica semi-presidenziale:
in queste nuove vesti non solo rafforzò i legami con la Germania di Adenauer, a discapito dei ripetuti tentativi britannici di entrare nella CEE, ma provocò una seconda, più grande crisi.
Nel 1965 infatti il primo Presidente della Commissione, il cristiano-democratico tedesco Hallstein, ottenne di riformare la Politica Agricola Comune per permettere alla CEE di mantenere alcune entrate fiscali come risorse proprie, in un’ottica federalista e sovranazionale. Il Consiglio dei Ministri (voce dei singoli Paesi membri, dunque contraltare intergovernativo rispetto alla Commissione) venne consultato per ultimo, peraltro nell’anno in cui veniva meno la necessità del voto unanime.
De Gaulle in segno di protesta ritirò i ministri francesi dal Consiglio, bloccando il processo e innescando la cosiddetta crisi della sedia vuota. Le tensioni si risolsero solo un anno dopo, con il Compromesso di Lussemburgo: la Francia, tornata a sedere in Consiglio dei Ministri, ottenne una forte limitazione del voto a maggioranza qualificata, potenzialmente un ritorno all’unanimità.
Il vero superamento della crisi si ebbe peraltro con l’uscita di scena di De Gaulle nel 1969: nonostante la rimonta gollista alle parlamentari dell’anno prima in reazione al Sessantotto, il presidente si dimise per il fallimento del referendum costituzionale da lui proposto.
Soprattutto dopo la morte di De Gaulle nel 1970 l’integrazione europea procedette più spedita. Fra le altre cose, tre anni dopo sarà approvato l’ingresso britannico nella CEE.
Sarebbe pretestuoso ridurre il posizionamento di De Gaulle a un mero euroscetticismo:
il presidente sosteneva piuttosto un ruolo preponderante per la Francia all’interno dell’Europa, cui un’integrazione sovranazionale sarebbe stata d’ostacolo. Di fatto De Gaulle prediligeva un’Europa delle patrie, dei popoli e degli Stati (citazione falsamente attribuitagli, ma concettualmente calzante), la confederazione che sarebbe emersa dal travagliato percorso del Piano Fouchet.
Il suo atteggiamento frenò certamente l’integrazione europea in un modo oggi definibile sovranista, ma che non implica euroscetticismo più di quanto la sua contestuale uscita dai Comandi Militari Integrati della NATO non implicasse anti-atlantismo (si trattava piuttosto di aspirazione a un rapporto più equilibrato e meno ingerente da parte degli USA, così come in ambito monetario).
Già prima della crisi della sedia vuota, lo scriveva del resto Bino Olivi: «De Gaulle non si limita a criticare severamente», bensì propone un «duumvirato franco-tedesco». Una risposta terziaria al bipolarismo evidente anche nelle posizioni sul Québec, sulla Cina, sull’URSS e sulla Romania.
A questo va poi aggiunto che proprio nel 1965 De Gaulle era incalzato dal ballottaggio contro il socialista Mitterrand.
Nel 1969 gli successe in realtà un continuatore, il suo primo ministro Pompidou, e in generale non si può dire che la Francia non abbia più posto ostacoli a un’ulteriore integrazione europea: si pensi al referendum sulla Costituzione, alla continuata polemica contro l’asse renano, al ruolo autonomo di Macron oggi – pur lontano da una prospettiva gollista, volto più che altro alla conquista di una leadership primaria nell’UE.
Quello che non mancò all’ex-generale fu, del resto, uno spiccato nazionalismo: come ebbe a dire al suo ministro Peyrefitte fra il 1964 e il 1965, «le ideologie passano, i popoli restano» e che la Francia fino a poco tempo prima «era la prima d’Europa, dunque del mondo».