Il socialista riformista Giacomo Matteotti, compagno di partito di Turati, il 30 maggio 1924 aveva pronunciato un discorso alla Camera dei Deputati per denunciare l’illegalità delle elezioni tenutesi ad aprile: le ultime multipartitiche, ma già viziate dalla Legge Acerbo e da brogli e squadrismo, inclusa l’uccisione del candidato socialista Piccinini (che venne comunque votato post-mortem, vincendo per numero di preferenze).
Nelle “elezioni” del 1929 e 1934, infatti, i cittadini avrebbero potuto votare soltanto sì o no a una lista predefinita di candidati, da cui i grotteschi ritratti di Mussolini attorniato dalla scritta sì campeggianti su Palazzo Braschi a Roma.
Il discorso di Matteotti non conteneva tanto la menzione numerica ed evenemenziale di ogni broglio avvenuto, pur affrontando anche il terreno della legittimità giuridica:
«L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni».
Il deputato e segretario del PSU, anzi, quel 30 maggio diede ampio spazio alla questione più ampiamente politico-ideologica della propensione autoritaria del governo fascista, del suo ostentato e rivendicato atteggiamento anti-democratico (che affondava le radici più vicine nell’humus nazionalista e anti-giolittiano del primo Novecento).
In primo luogo abbiamo la dichiarazione fatta esplicitamente dal governo, ripetuta da tutti gli organi della stampa ufficiale, ripetuta dagli oratori fascisti in tutti i comizi, che le elezioni non avevano che un valore assai relativo, in quanto che il Governo non si sentiva soggetto al responso elettorale, ma che in ogni caso […] avrebbe mantenuto il potere con la forza, anche se… [interrotto].
Come riportato poc’anzi, d’altronde, Matteotti riteneva quanto accaduto nel 1924 anti-democratico nella sua essenza.
Contrastando già allora quella che sarebbe divenuta la tesi dell’uomo forte esplicativa del fascismo, sosteneva che:
Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. […] Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità, domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni.
E quando il deputato nazional-fascista Maraviglia derise la sua contestazione, Matteotti rispose: «Certo sarebbe Maraviglia se contestasse lei!».
Secondo la stampa di allora, durante i primi processi farsa, Albino Volpe (uno dei sicari) avrebbe riportato le famose ultime parole o quasi del socialista: «Uccidete me ma l’idea che è in me non la ucciderete mai». Per quanto storici come Mayda abbiano messo in dubbio la paternità della citazione, essa appare comunque profetica del ruolo di martire antifascista da subito ricucito su Matteotti e pienamente imbastito fra la Resistenza e il Dopoguerra.
Altrettanto profetica, ancor più nota e più attendibile è la frase rivolta dal deputato ai colleghi appena dopo aver terminato l’orazione: «Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora, a voi preparare il discorso funebre per me».
Fu in effetti il rientro della crisi aperta dal delitto Matteotti a instaurare definitivamente la dittatura in Italia, con il celebre discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925, a cui sarebbero seguite le leggi fascistissime:
Ebbene, io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.
Queste parole, la mancata reazione davanti a una tale ammissione di responsabilità, sono state notoriamente interpretate come la ratifica di un’ormai tacitata opposizione e, se non di un consenso (a lungo discusso), di una supina mancanza di dissenso. Certo, vale sottolineare che Mussolini in quel passaggio apparisse sarcastico; negava la natura esclusivamente repressiva del fascismo, con una sorta di reductio ad absurdum:
Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere […].
Anzi, insisteva (in modo ridicolo col senno di poi, pertinente alla mitizzazione dei martiri fascisti di allora) sulle vittime fasciste: «[…] in Italia oggi chi è fascista rischia ancora la vita!».
È pur vero che la conclusione stessa del discorso del 1925 dimostra il peso e il pericolo della connivenza afascista, parafascista, disimpegnata, in nome della pace sociale:
«L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l’amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario.»
Se storicamente non si può negare che il 1925-26 abbia rappresentato un punto di svolta e accelerazione autoritaria nella storia del fascismo (che non fu mai monolitico sincronicamente, né statico diacronicamente, bensì composito ed evolutosi nel tempo), questo non implica che qualcosa non si fosse già rotto nel 1922, dopo la marcia su Roma.
Nel noto discorso del bivacco del 16 novembre 1922, il neo-Presidente del Consiglio Mussolini rivendicava minacciosamente sprezzo dell’istituzione parlamentare e dei mezzi democratici:
Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. […] Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli […] potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.
Che non si conoscessero le sue intenzioni, è insostenibile:
«Nessuno degli avversari di ieri, di oggi, di domani si illuda sulla brevità del nostro passaggio al potere».
Effettivamente il 10 giugno del 1940, sedici anni esatti dopo l’uccisione di Matteotti, Mussolini era ancora là (o meglio, a Palazzo Venezia): la stagione era diversa, un’altra ancora se ne apriva, la retorica era persino più palese dopo circa vent’anni di martellante propaganda.
Così il dittatore non fece mistero della natura politica che avrebbe avuto il Nuovo Ordine che auspicava di creare in Europa, entrando in guerra «contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano».
In ricordo di Giacomo Matteotti, 22/05/1885-10/06/1924-10/06/2024