
È successo tutto in così pochi giorni.
Il 9 giugno, quasi 8 milioni di francesi hanno votato il Rassemblement National alle elezioni europee, rendendolo il primo partito del Paese. In serata, il presidente Macron ha preso atto della sconfitta, annunciando elezioni anticipate.
Il 12 giugno Macron ha comunque cassato come «assurda» la possibilità di dimissioni: nella repubblica semipresidenziale francese, le elezioni legislative del 30 giugno rinnoveranno la camera bassa del Parlamento e dunque il governo, che potrà essere di colore diverso rispetto al presidente senza che quest’ultimo cada (la cosiddetta coabitazione).
Il giorno prima Ciotti, presidente dei Républicains di centrodestra, aveva annunciato un’alleanza col Rassemblement National apparentemente caldeggiata dalla stessa base del partito: anche la stampa italiana ha subito parlato di rottura del «cordone sanitario» che storicamente ha separato la destra moderata da quella estrema in Francia.
I quadri dirigenti del partito, invece, hanno protestato contro la mossa del leader (in primis Pécresse, a capo di una corrente liberista e già rivale di Ciotti): per tutta risposta, verso mezzogiorno il presidente dei Républicains ha ordinato la chiusura della loro sede parigina, intimando ai colleghi di sgomberarla. Meno di cinque ore più tardi, una riunione convocata d’urgenza dalla segretaria generale Genevard ha espulso Ciotti dal partito, all’unanimità.
Sempre il 12 giugno, Marion Maréchal (nipote di Le Pen ma volto del partito Reconquête) ha invitato a votare per il RN – in serata, Zemmour (leader di Reconquête) ha annunciato in TV la sua espulsione per «tradimento».

Il «cordone» dunque resiste o si va verso il bipolarismo? Perché tutto questo accade solo ora, se sono le terze europee vinte dal RN di Le Pen? Quale sarà il ruolo di Zemmour e di Maréchal? Insomma, quante destre si presenteranno il 30 giugno?
Oggi i principali partiti non di sinistra sono Reconquête, Rassemblement National, Républicains (evoluzione dei gollisti sotto Sarkozy) e Renaissance (il partito del presidente, ex-En Marche, sulla cui natura di centro o centrodestra si potrebbe scrivere a lungo) – tutti con la R.
Nel 1954 (ma rivedendo le proprie tesi negli anni Ottanta) lo storico Rémond individuava tre destre (legittimista, orleanista e bonapartista) – tuttavia partiva dalla Rivoluzione Francese, rendendo la sua opera monumentale quanto questo articolo non può né vuole essere.
Basti dire che nel secondo Novecento, dopo la Liberazione, nonostante le polarizzazioni della Guerra Fredda la destra gollista anti-comunista si è tenuta distante dalla destra estrema, specialmente quella neofascista.
La seconda poteva essere incarnata da negazionisti come Bardèche o Rassinier: il primo, cognato del collaborazionista Brasillach, definì il Processo di Norimberga una «cospirazione» dei vincitori e la storia una «scienza illusoria», ancora nel 1976; il secondo, seppur ex-internato, negli anni Sessanta continuava a rigettare il numero di 6 milioni di ebrei uccisi nella Shoah, per lui «impossibile».
Più peculiare la figura di Garaudy, che negli anni Sessanta passando dal comunismo all’estrema destra spostò il suo negazionismo dai gulag alla Shoah: negli anni Novanta esprimeva posizioni in realtà terzomondiste, no global, anti-americane anche in senso contrario alla guerra islamofoba di Bush Sr., senza risparmiare commenti sulle «lobby ebraiche».
Il punto è che questo microcosmo dalle mille sigle (la JN dei Sidos, l’OAS anti-algerina, ON, la FEN, Occident, Europe-Action, L’Œuvre…) dopo la guerra si era dunque dovuto muovere fra l’ostracismo e la clandestinità. Per contro, a cavallo fra anni Sessanta e Settanta il movimento della Nouvelle Droite aveva cercato di riscattare l’estrema destra dalla sua ghettizzazione, specialmente nell’ambito della cultura di massa e delle élite intellettuali.
Già nel 1962, l’ex-paracadutista Venner (anti-comunista e anti-capitalista insieme) aveva invocato la costruzione di una coscienza rivoluzionaria, per lui mai spontanea, per non lasciare le basi popolari prerogativa dei soli comunisti: la destra doveva fare quello che Lenin aveva fatto con Marx, scrisse.
Se questa sorta di gramscismo di destra e la rivendicazione di una nuova “egemonia culturale” ebbe forte influsso sulla Nuova Destra italiana e ancora oggi riecheggia, si vedrà che neanche in Francia è stato indolore.
La Nouvelle Droite di De Benoist ha influenzato infatti in primo luogo Jean-Marie Le Pen (già affiliato al populismo di Poujade), quando nel 1972 fondò il Front National. Il nuovo partito si ispirava in realtà anche al peculiare euro-nazionalismo neofascista della Jeune Europe belga, all’intransigentismo cattolico anti-conciliarista della Fraternità di S. Pio X e soprattutto al MSI italiano, fiamma tricolore inclusa.

Il progetto egemonico c’era, non tanto perché tra i cofondatori figurasse il saggista “agrario” Bompard, quanto piuttosto per l’obiettivo di riunire la destra francese. Lo scopo non si poté però dire raggiunto: fino ai primi anni Ottanta, subì la concorrenza del PNF guidato dal collaborazionista Tixier-Vignancour. È solo con le europee del 1984 (le stesse in cui il PCI fu per l’unica volta primo in Italia) che Le Pen acquisì vera notorietà, sulla base di un programma terzo-forzista (né con gli USA né con l’URSS).
Alle europee però c’era un sistema proporzionale, mentre nelle elezioni legislative il sistema era maggioritario uninominale, con una soglia di sbarramento peraltro non così bassa (5% nel 1973). Fra gli anni Novanta e i Duemila, però, il FN iniziò a cambiare volto: come il MSI in Italia, polemizzò contro la corruzione del centrosinistra e del centrodestra; da euro-nazionalista divenne euroscettico; si pose come partito trasversale puntando anche a un elettorato operaio tradizionalmente di sinistra, anticipando il populismo del decennio successivo.
Nel frattempo, ai gollisti che cos’era successo?
Nel secondo Novecento si erano riuniti in diverse formazioni: RPF, poi UNR inglobando anche correnti di centrosinistra, per tornare su posizioni più intransigenti di fronte al Sessantotto con l’UDR, e cioè con il passaggio di consegne da De Gaulle a Pompidou e poi al premier Chirac (sotto la presidenza del liberale Giscard). Chirac, sussumendo l’eredità gollista, l’aveva tramutata in RPR e infine, come Presidente della Repubblica, nel 2002 aveva allargato all’UMP includendo formazioni centriste e liberali.
Nonostante la concorrenza proprio dell’UMP e dello scissionista Mégret, Le Pen nel 2002 riuscì ad arrivare al ballottaggio presidenziale contro Chirac (al che persino i Socialisti sostennero il secondo, col suddetto cordone sanitario). Con il nuovo decennio, nel 2011 Jean-Marie si dimise e al suo posto fu eletta la figlia Marine Le Pen: la nuova presidente ha guidato il partito verso la cosiddetta normalizzazione, notoriamente espellendo lo stesso padre nel 2015 dopo che aveva definito le camere a gas «solo un piccolo dettaglio».
Qualche ricorso e ripudio familiare più tardi, il FN risultò il partito più votato alle regionali del 2015 (come già l’anno prima alle europee, in cui era alleato con la Lega Nord); nel 2017 fu Le Pen figlia a raggiungere il ballottaggio alle presidenziali, tuttavia perso contro Macron.
A quel punto il partito, bisognoso secondo la leader di una più profonda trasformazione, al Congresso di Lilla del 2018 ha cambiato nome in Rassemblement National (mentre fuoriusciva Philippot con i suoi Patriotes). Alle europee dell’anno successivo il RN fu nuovamente primo, con capolista il giovane Bardella (compagno di una nipote di Marine Le Pen, divenuto vicepresidente del suo euro-partito).
Battendo i propri record con il 23%, Le Pen ha raggiunto ancora il ballottaggio nel 2022: per questo si è dovuta dimettere da presidente del RN, succeduta proprio da Bardella. Sconfitta di nuovo, alle legislative Le Pen ha dovuto condividere il Parlamento con altri tre blocchi (centrodestra, centro e sinistra), sottraendo la maggioranza assoluta a Macron e portando a un governo di minoranza.
È qui che si inserisce un altro volto: Zemmour.

Nato proprio nel 1958 (l’anno della Quinta Repubblica gollista) da una famiglia ebraico-algerina, Zemmour ha alle spalle una carriera giornalistica conservatrice sin dagli anni Ottanta e, col nuovo millennio, si è dato a radio e TV su canali elogiati anche dalla destra italiana, come CNews.
È però solo nel 2021 che si è avvicinato alla politica in prima persona: i sondaggi per le presidenziali dell’anno seguente lo davano al 17%, così Zemmour ha fondato il partito Reconquête. La neonata formazione ha incontrato i favori di Marion Maréchal, altra nipote di Le Pen che per il FN era stata la più giovane deputata nella storia della Repubblica Francese, a 22 anni, nonché luogotenente nella roccaforte provenzale. Dal 2017 aveva abbandonato il partito (e poi il cognome) per ragioni anche familiari, divenendo poi vicepresidente di Reconquête.
Anche loro avevano l’obiettivo di radunare le destre borghesi e popolari, ma alle presidenziali Zemmour è arrivato quarto; alle europee di quest’anno Reconquête ha giusto superato la soglia del 5% – con l’annuncio delle legislative, la capolista Maréchal ha riaperto al RN della zia, giocandosi il posto nel partito.
Perché allora Zemmour nel 2021 era dato al 17%?
Fra il giornalismo e la saggistica, il politico si è creato un’immagine radicale, incalzando Le Pen da destra: si è definito «gollista-bonapartista» ma anche «nostalgico e reazionario»; si è detto contrario all’insegnamento dell’inglese e alle classi miste fra studenti con disabilità e non, uscita tipica delle destre radicali anche tedesche e italiane; ha proposto l’annessione del Nord Italia.
Non è però solo un prodotto del gusto televisivo per il battibecco e il trash che, lì come qui, si dimostra sempre meno innocuo. Sembra di poter riconoscere in Zemmour quelle eco superficiali del gramscismo di destra che rivendicano egemonia culturale: mentre De Benoist continua ad avvertire contro il politicamente corretto, nel 2010 Zemmour ha vinto il Premio del Libro Scorretto con Mélancolie française, in cui espone una sua versione della storia secondo la quale Pétain (il collaborazionista di Vichy) nel 1940 compì una scelta giusta e pacifista.
Le sue tesi sono propriamente decliniste, quasi la reazione a un rinnovato decadentismo e il ritorno della cultura della crisi di inizio Novecento dalle note conseguenze: Zemmour parla di «suicidio francese» e nel libro del 2010 paragona l’immigrazione arabo-africana alle invasioni barbariche che fecero cadere l’Impero Romano (di cui ritiene la Francia erede, ridimensionandone il passato celtico). L’autore del resto (sostenendo la teoria della Grande Sostituzione) predilige l’assimilazionismo al multiculturalismo, il mescolamento che già Faye nella Nouvelle Droite additava a causa del declino americano.
Naturalmente il declino è anche una questione di genere: Bardèche nel 1968 riteneva la vita familiare minacciata da una «decivilizzazione» iniziata con l’uguaglianza fra uomini e donne, proseguita con il divorzio (che si scontrerebbe con il naturale istinto femminile alla sottomissione) e culminata con degli uomini che non sanno più «utilizzare» le donne. Così, Zemmour nel 2000 parlava di declino occidentale non solo in termini cosmopoliti, ma anche delle quote rosa e della morte di una Francia tradizionale, insieme contadina, industriale e soprattutto cattolica, ostile a divorzio e omosessualità.
Nel 2006 lamentava un uomo che ormai «vale meno di qualsiasi donna», la perdita della «psiche virile» da parte delle «giovani generazioni effeminate» che non frequentano più le sex worker; definiva le donne poco procaci «mutanti», l’omosessualità femminile una risposta alla «paura del fallo, della violenza», la parità di genere una sconfitta degli uomini. In una riedizione del 2015, l’editore italiano sottolineava che tutto questo «ci consegna all’Islam».
Nel 2022 due milioni e mezzo di persone l’hanno votato come presidente – oggi le espulsioni di Ciotti e Maréchal saranno sufficienti ad allontanare un bipolarismo Macron-Le Pen? Cambieranno le posizioni anti-normalizzazione di Bardella? O troverà nuova linfa Zemmour, che sembra incarnare una poesia di Houellebecq dedicata «al deterioramento e al declino dell’Europa»?