Nei nostri armadi spesso colmi di vestiti, è molto facile imbattersi in almeno un’etichetta con scritto “Made in Bangladesh”. Questa etichetta, così come altre che indicano la provenienza sud-asiatica dei nostri vestiti, è un chiaro segno di bassa qualità del prodotto e delle terribili condizioni di lavoro dei produttori.
Lo sviluppo della globalizzazione, l’espansione dell’industria vestiaria e la crescita della domanda occidentale di vestiti low-cost hanno portato numerose aziende ad affidare la produzione ai paesi in cui il basso costo della manodopera permette una maggiore redditività. Si tratta dei grandi marchi del fast fashion, come il gruppo H&M (COS, Weekday, Monki, And Other Stories, Arket), Inditex (Zara, Bershka, Stradivarius, Pull&Bear, Massimo Dutti, Oysho), Primark, OVS, United Colors of Benetton, e altri ancora.
Di conseguenza, l’industria tessile è fondamentale per l’economia del Bangladesh, con una produzione annua di circa 45 miliardi di dollari e 4 milioni di lavoratori impiegati nel settore.
Il costo umano di una maglietta venduta a 9,99 € ricade però sugli operai, che non riescono a condurre una vita dignitosa: i salari sono troppo bassi, i turni sono lunghi ed estenuanti e la sicurezza sul posto di lavoro è spesso inesistente. In più, i livelli estremamente alti di inquinamento intorno alle fabbriche stanno avvelenando le persone, insieme all’ambiente in cui vivono: nelle acque vicino a Dacca, la capitale del Bangladesh, sono state trovate altissime concentrazioni di sostanze chimiche molto rischiose per la salute, i forever chemicals, chiamati così perché potrebbero impiegare centinaia o migliaia di anni per scomparire.
Il disinteresse globale sulle condizioni di vita e lavoro in Bangladesh si è momentaneamente sospeso il 24 aprile 2013, con il crollo del Rana Plaza, un edificio in cui lavoravano numerosi operai del fast fashion, che uccise 1134 persone e causò 2500 feriti.
Si trattava di una delle 400 fabbriche di indumenti di Savar, un distretto di produzione a nord della capitale, dove 500.000 persone lavorano tra le 60 e 70 ore settimanali e ottengono un salario esiguo che rende difficile sfamarsi.
L’alto interesse mediatico suscitato dall’evento spinse molte aziende occidentali a stipulare un accordo per migliorare le misure di sicurezza nelle fabbriche. Anche se la situazione è migliorata rispetto al 2013, in molti stabilimenti persistono gravi condizioni che mettono a rischio la vita dei lavoratori.
Recentemente, Progetto Happiness ha documentato la situazione attuale, riuscendo a introdurre le telecamere nelle fabbriche e a intervistare i lavoratori. Il filmato mette in luce la situazione nelle concerie, mostrando operai che lavorano scalzi con i piedi immersi in acqua contaminata da sostanze tossiche. Molti lavoratori sono bambini di circa 7 o 8 anni, sfruttati perché le loro mani minute svolgono un lavoro più preciso. Viene intervistata Jui, una bambina di 12 anni che lavora nelle fabbriche di vestiti: “Il mio desiderio era diventare medico, ma siccome non posso più diventarlo, sto lavorando nelle fabbriche di vestiti, così con quello che guadagno, mia sorella può studiare e diventare medico”. Jui vive in una baraccopoli insieme alla sua famiglia, e ha dovuto abbandonare la scuola per lavorare tutto il giorno, senza giorni di riposo.
Così come lei, molti altri bambini bengalesi sacrificano la loro innocenza e i loro sogni per contribuire al sostentamento della famiglia. Non sono tutelati dallo sfruttamento, non possono giocare e non hanno diritto all’istruzione.
Si tratta di un sistema difficile da abbattere: le problematiche sono troppe, così come gli interessi. Se le grandi aziende sono così irresponsabili e prive di scrupoli, bisogna chiedersi dove finisce la loro responsabilità e dove inizia quella individuale, per poter evitare di esserne complici.