32 anni sono passati dall’assassinio dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per mano della mafia siciliana. In 32 anni, molte cose sono state dette sul conto di questi due uomini che, impavidi e a testa alta, si sono messi completamente al servizio del proprio paese, pagandone il prezzo più alto. Con il loro impeccabile senso civico, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno permesso alla lotta antimafia di fare passi da gigante; senza il loro contributo, la mafia siciliana non sarebbe solo più forte e più violenta, ma anche più sconosciuta.
Entrambi fieri palermitani, i due magistrati hanno condiviso l’infanzia nel quartiere Kalsa, per poi proseguire il loro percorso frequentando il liceo classico e, infine, laureandosi a pieni voti in giurisprudenza.
Nel 1963, a un solo anno dalla laurea con lode, Borsellino entrò in magistratura, diventando così il membro più giovane della magistratura italiana.
Successivamente, divenne pretore di Mazara del Vallo nel 1967, per poi traslocare a Enna e Monreale, dove iniziò a lavorare contro la mafia.
Durante il tempo trascorso a Monreale, il magistrato Borsellino collaborò con Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri, utilizzando condanne e arresti per demolire l’associazione mafiosa locale.
Tuttavia, nel 1980 Basile venne assassinato: questo fu il primo grave lutto professionale subito da Borsellino. A causa di questo evento, il magistrato si vide privato della sua libertà, e costretto a essere messo sotto scorta insieme alla sua famiglia.
Nel 1975, infine, tornò nella città natale.
Falcone, invece, trascorse i primi anni della sua carriera come pretore a Lentini e a Trapani, entrando sempre più in contatto con la realtà mafiosa locale.
In seguito, anche Falcone ritornò a Palermo per collaborare al processo dell’associato mafioso e costruttore edile Rosario Spatola; così, i due magistrati rientrarono in contatto.
Nel frattempo, tra il 1981 e il 1982 Palermo si tramutò nel campo di battaglia per una violenta guerra di mafia che procurò innumerevoli vittime e sparizioni. Gli artefici di questa violenza erano i “viddani”, ovvero contadini, di Corleone, gli associati mafiosi al servizio di uno dei capi più violenti di Cosa Nostra, Totò Riina. ) La peculiarità di Riina si trovò proprio nella ineguagliabile violenza con cui si era imposto sui capi rivali.
Nel frattempo, Cosa Nostra continuò a mietere vittime: il 30 aprile 1982, Pio La Torre, membro della Commissione antimafia, venne ucciso a Palermo mentre si recava alla sede del Partito Cominista. Il suo sostituto, Alberto Dalla Chiesa, generale dei Carabinieri che vantava di essersi occupato della lotta alle Brigate Rosse, fece la stessa fine del suo predecessore quando venne ucciso il 3 settembre 1983 insieme alla moglie.
Nel 1983, a guerra di mafia conclusa, la violenza non terminò.
Totò Riina non desiderava altro che uno scontro diretto con lo Stato. Quando nel 1975 Borsellino tornò a Palermo, iniziò a lavorare a stretto contatto con Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo e superiore di Falcone. Insieme, i due giudici vollero ideare un sistema che affidasse a pochi magistrati scelti i processi antimafia, fornendogli una specializzazione, in modo da impedire la dispersione delle indagini.
Rocco Chinnici fu una delle prime vittime dello scontro di Cosa Nostra con lo Stato; venne assassinato il 23 luglio 1983 con un’autobomba.
Il suo incarico venne allora assegnato ad Antonino Caponnetto, giudice noto per la sua serietà professionale, che colse l’intuizione di Chinnici e comprese quanto fosse prezioso il coordinamento di indagini fra i magistrati. Così, Caponnetto istituì il pool antimafia, la squadra di fiducia di Caponnetto che soddisfava proprio questa necessità.
Al pool antimafia presero parte lo stesso Caponnetto, Borsellino, Falcone, Giuseppe Di Lello Finuoli e Leonardo Guarnotta, un procuratore con molta esperienza. Il pool iniziò immediatamente a lavorare senza sosta; grazie all’esperienza di Falcone e Borsellino, tutta la squadra comprese il modo di operare e i traffici dei contadini di Corleone.
Fu tramite l’utilizzo di accertamenti bancari e patrimoniali che le indagini iniziarono a prendere piede.
Inoltre, un grande contributo derivò dai primi pentiti che iniziarono a collaborare alle indagini. Di notevole aiuto fu il contributo di Tommaso Buscetta, che perse numerosi familiari nella guerra di Riina. Buscetta intendeva collaborare esclusivamente con Falcone, avvisandolo anche del pericolo che si correva nel combattere così apertamente contro Cosa Nostra.
Grazie alle dichiarazioni dei pentiti, i magistrati vennero a conoscenza della struttura, del reclutamento, e della gerarchia che caratterizzarono la mafia siciliana. Così, il 29 settembre 1984 vennero emanati 366 mandati d’arresto.
La vendetta di Riina fu rapida: il 28 luglio 1985 assassinò Beppe Montana, capo della Sezione latitanti della polizia di Palermo, e, non molto più tardi, Ninni Cassarà, stretto collaboratore di Falcone. Ne conseguì il trasferimento di Falcone e Borsellino e delle loro famiglie all’Asinara, isola-carcere in Sardegna.
Lì, i magistrati conclusero l’istruttoria di quello che venne denominato “maxi-processo”, il maggiore colpo subito dalla mafia siciliana finora. Il maxi-processo iniziò il 10 febbraio 1986, e si concluse più di un anno dopo, il 16 dicembre 1987. Il maxi-processo permise al pool antimafia di ottenere 360 condanne e 114 assoluzioni.
Successivamente al maxi-processo, Caponnetto dovette mettere fine al suo incarico a Palermo.
In molti ritenevano che la successione naturale a Caponnetto spettasse al suo stretto collaboratore Giovanni Falcone; tuttavia, Falcone si procurò molte antipatie anche tra colleghi e politici, che lo accusavano di andare in cerca di fama, e di non portare a termine il suo lavoro contro la mafia.
Così, il Consiglio Superiore della Magistratura decise che a sostituire Caponnetto come capo dell’Ufficio istruzione di Palermo sarebbe stato Antonino Meli, inesperto in fatti di mafia, scelto per le simpatie politiche di cui godeva.
Meli, durante il suo incarico, affidò a magistrati non facenti parte del pool-antimafia i processi mafiosi, lasciando a Falcone e ai suoi colleghi delle indagini minori; Borsellino lo accusò di cercare di smantellare il pool antimafia.
Successivamente, Falcone subì un’ulteriore sconfitta professionale quando non fu nominato come alto commissario per la lotta antimafia, e al suo posto venne nominato Domenico Sica.
L’apice dello scontro tra pool antimafia e Meli si verificò quando, durante l’inchiesta del pentito Antonino Calderone, Meli espresse il desiderio di dividere il processo tra 12 persone; Falcone sostenne però che dovesse essere solo il pool antimafia ad occuparsene, per non disperdere le indagini. Di nuovo, Meli ebbe la meglio, e così Falcone venne destinato ad un altro ufficio. A causa di Meli, la lotta antimafia fu costretta a fare lunghi passi indietro.
Notando l’isolamento di Falcone tra i colleghi, Cosa Nostra decise di mettere in atto un attentato contro il magistrato.
50 candelotti di dinamite vennero nascosti nella villa delle vacanze affittata per l’estate da Falcone; l’attentato non fu tuttavia compiuto, poiché venne perso il telecomando che azionava i candelotti.
Falcone lasciò allora Palermo, la sua terra natia, e si trasferì a Roma, dove diventò direttore generale dell’Ufficio Affari penali. Falcone non rinunciò alla guerra contro la mafia, nonostante ora necessitasse di avere sempre la scorta e le auto blindate per ogni spostamento. Nel 1991 vennero fondate da Falcone la Direzione nazionale antimafia e la Direzione investigativa antimafia; inoltre, Falcone ideò la rotazione dei giudici della Corte Suprema, in modo da garantire che i processi fossero sempre equi.
Borsellino, invece, dopo il maxi-processo ottenne l’incarico di Procuratore della Repubblica a Marsala; solo nel 1992 tornò a Palermo, nella città natale, a lavorare contro Cosa Nostra come Procuratore aggiunto.
Totò Riina, grazie alle amicizie politiche strette all’epoca, contava di essere assolto tramite la corte di Cassazione, dopo aver superato le condanne di primo e secondo grado. Tuttavia, la Cassazione confermò le condanne di Riina. Falcone così si trovò più in pericolo che mai, avendo fatto perdere a Riina la sua reputazione tanto violentemente ottenuta. Riina aveva sete di vendetta contro lo Stato, uno Stato rappresentato da Falcone.
I contadini di Corleone iniziarono a monitorare ogni sua abitudine e spostamento, senza però ricorrere a un attentato nella capitale, dove non avevano sufficienti contatti.
Inoltre, nel 1991 Cosa Nostra tentò di portare a termine l’uccisione di Borsellino; tuttavia, Vincenzo Calcara, l’associato mafioso incaricato di assassinare il magistrato, venne arrestato prima di riuscire nell’impresa. La vendetta effettiva di Riina iniziò il 12 marzo 1992, a Mondello, dove venne assassinato Salvo Lima.
Successivamente, il 23 maggio 1992 fece uccidere Falcone, sua moglie e tre membri della sua scorta nella strage di Capaci.
Nonostante il lutto, Borsellino lavorò senza sosta contro la mafia, anche dopo la morte del suo amico e collega. Nel frattempo, Riina avanzò 12 richieste allo Stato italiano: tra queste, voleva la revisione del maxi-processo, l’annullamento del 41-bis, e la riforma della legge sui pentiti.
Quando Borsellino si oppose a questa trattativa, Riina lo mise nel mirino, definendolo un “muro da scavalcare”.
Dopo il tradimento di un generale dei carabinieri che considerava amico, Borsellino divenne consapevole della sua imminente morte. Il 19 luglio 1992, durante un’afosa giornata palermitana, in via D’Amelio, un’autobomba assassinò il magistrato Borsellino e cinque uomini della sua scorta. Il giudice Caponnetto trascorse gli ultimi anni della sua vita a girare l’Italia raccontando le gesta dei due magistrati, due uomini che hanno messo il loro paese davanti alla loro vita.
Borsellino e Falcone vennero definiti come “martiri della guerra contro la mafia” da Papa Wojtyla; tuttavia, sono molto di più.
Borsellino e Falcone sono due palermitani che hanno amato la loro terra fino all’ultimo respiro, e sono stati disposti a tutto pur di liberarla dalla violenza e dalla carneficina che i loro compaesani dovevano subire ogni giorno. Hanno sempre creduto nella giustizia, e non si sono mai tirati indietro di fronte alle minacce di chi si è imposto con la prepotenza.
Borsellino e Falcone erano due guerrieri e lottavano per chi non aveva i mezzi per farlo, in nome di un’Italia e di una Sicilia libere.
Articolo di Emma Pierri.