Ogni due mesi, il giorno 27, 5 serie TV per tutti i gusti: The Sofa Chronicles è la rubrica dove recensiamo le novità più popolari del momento, consigliandovi quali valga la pena guardare comodamente sul divano e quali no.
House of the Dragon, Stagione 2, Sky Atlantic (Ryan Condal, George R. R. Martin) − Recensione di Beatrice Lanza
La guerra è giunta a Westeros. Dopo una prima stagione all’insegna della pace, le nuove puntate della serie prequel di Game of Thrones raccontano la guerra di successione seguita alla morte del precedente sovrano, che vede contrapporsi i “Blacks” di Rhaenyra Targaryen ai “Greens” capitanati da Aegon Targaryen. I fan della serie principale che avrebbero voluto vedere di più dei draghi rimarranno sicuramente soddisfatti dalla nuova stagione, nella quale questi (e il loro rapporto con i padroni umani) ricoprono un ruolo più centrale.
Nonostante la lentezza che a volte penalizza gli episodi e che fa chiedere allo spettatore che cosa sia successo di rilevante nei sessanta minuti precedenti, la serie rimane spettacolare dal punto di vista visivo e avvincente quanto a personaggi e trama, specialmente grazie alla dinamica di contrapposizione tra le due fazioni. Lo spettatore sceglie da che parte stare e tifa sperando che questa vinca, tra intrighi di palazzo e battaglie infuocate.
The Bear, Stagione 3, Disney+ (Christopher Storer) − Recensione di Nina Fresia
Gli episodi si accumulano e il coefficiente di difficoltà delle sfide affrontate dallo chef Carmen Berzatto (Jeremy Allen White) e la sua brigata si alza: se la prima stagione si concentrava sul risollevare il locale del fratello e la seconda sul renderlo un ristorante di alto livello, nella terza chef Carmy punta alla stella Michelin.
I sogni e le speranze costruiti nel corso della stagione precedente non sono così facili da consolidare: i rapporti tra i diversi protagonisti sono difficili da gestire e ognuno deve convivere con i propri dolori e timori. Mentre Carmy cerca di fare i conti con il proprio passato, la sorella Natalie (Abby Elliott) affronta la gravidanza e le paure legate alla maternità (menzione speciale per l’episodio con Jaime Lee Curtis nei panni della madre dei fratelli Berzatto) e la collega Sydney (Ayo Edebiri) si trova davanti a un bivio importante per la sua carriera professionale.
Nella nuova stagione ricorrono le sequenze rapide di immagini e la non-linearità della trama, marchi di fabbrica della serie, che contribuiscono a trasmettere la frenesia e il caos che regnano in una cucina, ma anche nelle vite di chi vi lavora. Con 23 nominations agli Emmy, The Bear è già una serie cult: lo è diventata perché rappresenta in modo credibile fatiche quotidiane e difficili rapporti interpersonali, senza mai rinunciare a momenti di folle comicità.
Anche negli attimi di massima concentrazione e silenzio (come un impiattamento o il servizio al tavolo di un cliente) c’è sempre un elemento di disturbo, del rumore che irrompe nella scena (ad esempio, delle stoviglie che cadono o un pesante battibecco): un po’ ad indicare che anche dietro alla più maniacale delle perfezioni si nasconde un disordine di cui sembra impossibile liberarsi.
My Lady Jane, Stagione 1, Prime Video (Gemma Burgess) – recensione di Matilde Elisa Sala
Nella Gran Bretagna del XVI secolo, nel mezzo della dinastia Tudor, è ben noto il caso anomalo della regina Lady Jane Grey, sovrana per soli sei giorni dal 10 al 19 luglio 1553. È da questa forte base storica che si sviluppa My Lady Jane, basata sull’omonimo romanzo di Jodi Meadows. Divisa in otto episodi, la serie racconta la storia di Jane (Emily Bader), donna decisa, audace, di certo non una che si fa mettere i piedi in testa, nemmeno dalla sua stessa famiglia. La madre, infatti, grande spina nel fianco ha previsto per la figlia un matrimonio combinato con il misterioso Guildford Dudley (Edward Bluemel). Inutile dire che Jane non è affatto d’accordo… perlomeno all’inizio!
Come Jane salirà al trono? Qui sta a voi scoprirlo, perché la trama diventa più intricata del previsto tra complotti, crudeltà e sparizioni inaspettate.
Con grande ironia e una voce fuori campo che accompagna le vicende dei personaggi, la storia viene trasportata in questa cornice alternativa, nella quale si uniscono anche elementi romantici e fantasy. La serie diverte e intrattiene, poco importa che la realtà sia stata alterata. Aspettiamo ora l’annuncio di una seconda stagione!
The Boys, Stagione 4, Prime Video (Eric Kripke) − Recensione di Michele Cacciapuoti
Anche una serie ben scritta come The Boys, arrivata alla quarta stagione, rischia di risultare ripetitiva, annacquata o innecessaria. Ormai gli omicidi gratuiti di Patriota sono prevedibili e poco scioccanti; Butcher, e il suo rapporto con Ryan, sono lontani da una vera evoluzione.
Se c’è qualcosa in cui ogni tanto gli sceneggiatori sembrano avere difficoltà, è la gestione delle sottotrame parallele: in questa stagione pesano un po’ gli archi di Frenchie e Kimiko, in sé utili alla loro caratterizzazione ma ben poco integrati nella vicenda.
Ciò detto, la stagione riprende presto il ritmo e la grottesca provocatorietà di The Boys, dalla scena nel laboratorio o del dungeon a quella del polpo.
Certo, il grosso problema è la stasi di Patriota: invece di dar seguito al disvelamento progressivo del suo carattere insurrezionale e dittatoriale, culminato nella S3 con un omicidio in pubblico senza grosse conseguenze, il villain qui sembra sospeso e insoddisfatto per tutta la S4.
Complice il personaggio mal scritto di Sage, non vediamo né demagogia né dittatura, ma nemmeno per dare spazio a una trama investigativa (al massimo c’è un assaggio di intrigo politico). Comprensibile invece il poco spazio dato ai personaggi di Gen V, per non rendere lo spin-off obbligatorio in stile MCU.
I crimini di Patriota vengono affrontati in uno sbrigativo processo fuori campo, mentre il contesto sociale di una violenta polarizzazione politica scompare presto. È questa una rappresentazione sempre più palese della radicalizzazione trumpiana, giunta a livelli di didascalismo esagerati, che hanno costretto a un disclaimer dopo l’attentato del 13 luglio.
Se la stagione resta comunque molto bella, il finale rovina tutto: il mutaforma è sfruttato poco; il personaggio chiave per gli intrighi politici nella S5 viene fatto fuori in modo insensato (stessa volontà di shockare del MCU?); l’insurrezione viene limitata agli ultimi secondi, anche se ben sperare in una S5 di “democratura”.
Più del didascalismo trumpiano, si intreccia al mondo reale la ricezione sfasata da parte di chi forse non comprende quali siano i villain e gli obiettivi polemici della serie – fra chi insulta Erin Moriarty per le sue apparenze (ne parlavamo su Magma) e chi sembra glorificare Patriota (in stile Patrick Bateman).
Un Inganno di Troppo, Miniserie, Netflix (David Moore) − Recensione di Cristina Bianchi
Un inganno di troppo è una miniserie di 8 episodi ambientata tra le campagne inglesi e Londra, targata Netflix. Un thriller ricco di suspence, ispirato all’omonimo romanzo del 2016 di Harlan Coben, diretto da David Moore.
La protagonista è Maya Stern, interpretata da Michelle Keegan, ex pilota di elicotteri di stanza in Iraq per alcune operazioni speciali, mamma di Lily e vedova di Joe Burkett (Richard Armitage), membro di una delle più importanti famiglie in campo farmacologico. Joe è deceduto dopo 4 mesi dalla morte di Claire, la sorella di Maya, entrambi uccisi in modo violento. Maya, quindi, si ritrova ad indagare sulla propria famiglia e sulle relazioni di ognuno per capire cosa sia davvero successo. Soprattutto dopo aver visto il marito, dichiarato morto, in un video in casa sua.
Segreti e inganni del passato di Maya e delle persone che la circondano portano lo spettatore a rimanere incollato allo schermo, grazie anche ai colpi di scena e alla storia parallela del detective Sai Kierce, interpretato da Adele Akhtar, con un passato da alcolista, che indaga sulla vicenda.
Dall’inizio alla fine un dubbio aleggia: non si sa e non si riesce a capire se i protagonisti di questo thriller siano, in fondo, buoni o cattivi.