L’ incidere dell’inflazione, il più alto calo dei salari reali tra le maggiori economie europee, la povertà in aumento, e infine la bacchettata al governo Meloni per l’Assegno di Inclusione. Il report recentemente pubblicato dall’OCSE, “Prospettive dell’occupazione OCSE 2024”, è un campanello d’allarme che pone un interrogativo: perché revocare il Reddito di cittadinanza a favore dell’Assegno di Inclusione? Perché, con la povertà in crescita, passare ad una misura che riduce la platea di potenziali beneficiari, aumentando il rischio d’indigenza?
Dal 1° gennaio 2024, dopo quasi 5 anni, è stato abolito il RdC, sostituito dall’Assegno di Inclusione, per volere del governo Meloni. Il Reddito di cittadinanza non ha avuto vita facile, fin da subito. Voluto dal Movimento5Stelle, mai riconosciuto dalla Lega di Matteo Salvini, nato come compromesso politico nel governo giallo-verde. Una tra le politiche pubbliche più discusse e divisive degli ultimi vent’anni. Nonostante le frequenti critiche, il RdC ha però almeno in parte alleviato il problema della povertà, soprattutto durante e dopo la pandemia da COVID-19.
Ma in cosa consisteva il Reddito di cittadinanza?
Prima di tutto il RdC costituiva una misura innovativa in Italia, anche se arrivata con fin troppo ritardo. Uno schema di reddito minimo all’altezza degli standard europei, e che rispettava la raccomandazione del 1992. Si basava su un universalismo selettivo, per cui aperto a tutte le persone che rispettassero i criteri d’accesso, ed era basato su due pilastri. Da un lato, il sostegno al reddito, dall’altro, la condizionalità lavorativa, con i Progetti Utili alla Collettività (Puc) e il Patto per il lavoro, come conditio sine qua non per accedere al benefit.
Una misura completa, almeno nella teoria, perché disegnata in un’ottica d’investimento sociale. L’obiettivo era, da una parte, quello di fornire un reddito di sostegno ai nuclei in difficoltà, dall’altra l’inclusione attiva sociale e il reinserimento nel mondo lavorativo, tramite il Patto per il Lavoro o i Puc, in modo da far recuperare all’individuo la propria autonomia. Infatti queste due misure erano riservate alla percentuale di percettori considerati occupabili.
Facendo un bilancio di ciò che è stato il RdC, secondo gli esperti, due sono le considerazioni cardine. Durante la pandemia il reddito e le misure emergenziali hanno evitato che un milione di persone finissero sotto la soglia di povertà assoluta, secondo il rapporto ISTAT. Il RdC ha contribuito quindi a dare sollievo a molti nuclei familiari in difficoltà, pur presentando alcune criticità per certe categorie di beneficiari.
Sostanzialmente però, ha fallito nel trovare un’occupazione stabile ai beneficiari, il secondo obiettivo principale del Rdc. Infatti, ci sono state difficoltà strutturali a livello amministrativo, come la mancanza di progettualità, dovuta anche alla fretta con cui sono stati disegnati i percorsi di reinserimento dall’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro).
Vi è stato inoltre scarso coordinamento tra i vari organi che si occupavano dell’intero iter, e i navigator, ovvero i consulenti che avrebbero dovuto accompagnare i beneficiari verso un’occupazione, sono stati figure meno efficaci delle previsioni iniziali. Ma anche l’ambizione secondo cui persone particolarmente vulnerabili e in condizioni di disagio, potessero trovare un lavoro senza un precedente percorso di reinserimento sociale, è stata troppo ottimista. Secondo il monitoraggio Anpal 2022, tra i 920 mila percettori “occupabili”, circa il 18% avevano un lavoro. Il 72% degli occupabili non ha avuto un contratto di lavoro negli ultimi 3 anni. Numeri che testimoniano il fallimento del secondo pilastro del RdC, l’inserimento o il reinserimento nel mondo del lavoro. Nel complesso il RdC è costato quasi 29 miliardi di euro, secondo una rielaborazione dei dati INPS. Una spesa ingente per un Paese fortemente indebitato come l’Italia. Una cifra su cui gravano i 174 milioni di euro di frodi sul RdC dal 2019 al 2021.
Tuttavia, va sottolineato che ciò che è stato un cavallo di battaglia di media e forze politiche contrarie al Reddito, cioè le frodi dei “furbetti” che beneficiavano del Reddito senza averne diritto, ha rappresentato un fenomeno più marginale di quanto tale narrazione ci abbia fatto credere.
Il Governo Meloni, spinto da queste criticità e dal proprio elettorato avverso al Reddito, ha abolito la misura. Giorgia Meloni ha giustificato questa scelta sostenendo che non fosse una soluzione duratura per combattere la povertà. Secondo la Presidente del Consiglio, il RdC non riusciva a garantire un’occupazione stabile ai beneficiari, rimanendo una misura temporanea che, una volta concluso il periodo di erogazione, lasciava le persone nelle stesse condizioni di partenza, senza aver risolto i problemi strutturali legati alla disoccupazione.
Questa criticità del RdC, il notevole risparmio nei conti pubblici con il passaggio all’Assegno di Inclusione, dove la platea di beneficiari è praticamente dimezzata, e la coerenza politica della linea da sempre tenuta da FdI, ha spinto Meloni ad abolirlo e sostituirlo con una misura apparentemente simile, ma che nasconde una differenza enorme.
Infatti, dal 1° gennaio 2024, il RdC è stato sostituito dall’Assegno di Inclusione (ADI). La maggior differenza, da cui deriva la critica dell’OCSE e il precedente richiamo della Commissione Europea, è il restringimento della platea di potenziali beneficiari, con il passaggio dall’universalismo selettivo a criteri categoriali. In aggiunta ai requisiti economici, patrimoniali e di residenza, nonché alle normative sulla condizionalità lavorativa, l’ADI viene riservato a categorie ben delineate: a chi ha almeno un minore nel nucleo familiare o un portatore di handicap, a chi ha più di 60 anni, oppure a chi è inserito in un programma di cura e assistenza da parte dei servizi sociosanitari territoriali.
L’accesso categoriale si traduce facilmente in una ridotta platea di beneficiari e una grande fetta di ex destinatari del RdC sono rimasti esclusi e maggiormente esposti a situazioni di difficoltà. Secondo l’Ufficio Parlamentare di bilancio, il numero di beneficiari si sarebbe dovuto dimezzare, privando il 42% delle famiglie che percepivano il RdC del nuovo sostegno. La realtà però, è peggiore delle stime. Secondo i dati Inps, a maggio 2023, 1 milione e 367 mila famiglie avevano percepito almeno una mensilità del RdC, mentre a maggio 2024 sono state 624.712 le famiglie con l’ADI.
Alleanza contro la povertà ha espresso preoccupazione in merito: il 12 luglio scorso ha incontrato la viceministra del Lavoro e della politiche sociali Maria Teresa Bellucci, per evidenziare criticità e possibili miglioramenti dell’ADI.
Nell’occasione è stato illustrato il Position Paper dell’associazione sulla legge 85/2023, già presentato in Senato il 14 settembre scorso. L’obiettivo principale è l’auspicato ritorno ad una misura di sostegno al reddito che sia universale, non categoriale.
Un passo indietro che il Governo Meloni difficilmente potrebbe intraprendere, dato che proprio sull’abolizione del RdC, ha costruito parte della vittoria alle elezioni politiche del 2022.
Per questo l’Alleanza ha lanciato 8 proposte, che possano essere discusse per la prossima Legge di Bilancio e che andrebbero a risolvere le criticità più evidenti dell’ADI. Prima su tutte suggerendo delle correzioni dei criteri d’accesso: la revisione della scala di equivalenza, vincoli meno stringenti per gli stranieri e una migliore cumulabilità reddito-lavoro. Ma anche l’introduzione dell’indicizzazione in base all’inflazione di alcuni componenti dell’importo, come il sostegno all’affitto e la soglia reddituale di riferimento, un aspetto mancante anche nel RdC.
Il richiamo della Commissione europea e il report dell’OCSE, non possono essere ignorati. Seppur passata in sordina, la crescente incidenza della povertà dovrà essere un tema portante nella prossima Legge di Bilancio: la necessità di trovare soluzioni in merito potrebbe essere affrontata anche con l’ampliamento della platea di beneficiari dell’ADI.