Del: 23 Settembre 2024 Di: Michela De Marchi Commenti: 0
Attacchi politici negli Stati Uniti, una storia che va da Lincoln a Trump

Violenza e politica: un binomio caratterizzato da un rapporto unico negli Stati Uniti. In un Paese in cui il reperimento di pistole o fucili è agevolato, il tasso di attacchi eseguiti con un’arma da fuoco è notevolmente più alto rispetto ad altre democrazie in cui vi sono strette maggiori. Di conseguenza, ciò provoca effetti devastanti sulla società americana, ma anche internazionale.

In particolare, gli attentati verso esponenti politici sono un filo rosso che percorre tutta la storia dello Stato. L’ultimo tentativo di attaccare un candidato alla presidenza è avvenuto proprio pochi giorni fa, domenica 15 settembre, alle 13:30 (in Italia le 19:30), al campo da golf di West Palm Beach. Nel mirino, per la seconda volta in pochi mesi, è stato Donald Trump: già a luglio il tycoon era stato ferito all’orecchio durante un comizio tenuto a Butler, cittadina a nord di Pittsburgh, in Pennsylvania, per mano di un giovane ventenne, Thomas Matthew Crooks.

Ora ne è uscito completamente indenne in quanto gli agenti del Secret Service hanno individuato in tempo la canna di un fucile che sbucava dalla recinzione. Dopo aver portato il rappresentante repubblicano al salvo a Mar-a-Lago, è stato individuato e arrestato il presunto colpevole: si tratta di Ryan Wesley Routh, 58enne del North Caroline con alle spalle una lunga fedina penale, sostenitore del Partito Democratico e favorevole all’arruolamento per combattere in Ucraina.

Non è ancora chiaro il movente, ma ora Routh è accusato di crimini federali legati alle armi da fuoco e gli sono contestati sia il possesso del fucile nonostante fosse un condannato sia il numero di serie parzialmente cancellato. In totale, rischierebbe vent’anni di carcere e potrebbe essere multato con un pagamento di mezzo milioni di dollari. Potrebbe, però, non essere accusato di tentativo di omicidio a Trump in quanto non risulta chiaro se l’obiettivo fosse proprio l’ex presidente.

Nel giro di sessanta giorni negli Stati Uniti si è respirata un’aria di pericolo e si è discusso a lungo sull’origine di questi episodi, contando la facilità con cui sono stati effettuati e con cui sono stati reperiti i mezzi con cui attaccare.

Ma il Paese conta il triste vanto di altri casi simili: in alcuni i presidenti o i candidati tali ne sono usciti solo parzialmente feriti, in altri invece hanno dovuto pagare con la propria morte.

Innanzitutto, numerosi attacchi sono stati sventati: primo tra tutti l’attentato contro Andrew Jackson nel 1835, attuato da Richard Lawrence, un pittore disoccupato che puntò verso il presidente due pistole, ma, dato che entrambe si incepparono, il politico riuscì a salvarsi.

Nel 1912, invece, la vittima fu Theodore Roosevelt: John Flammang Schrank, gestore di un saloon, gli assestò il colpo durante la campagna elettorale a Milwaukee, ma il proiettile non ferì direttamente il presidente repubblicano grazie a un astuccio d’acciaio per gli occhiali e il discorso di 50 pagine, che avrebbe dovuto pronunciare per l’occasione, tenuti nella tasca interna della sua giacca. Dopo lo sparo, Roosevelt non rinunciò alla sua apparizione pubblica: parlò novanta minuti ai cittadini e poi, una volta concluso l’incontro, si fece portare in ospedale.

Vent’anni dopo, nel 1933, cinque colpi furono indirizzati a Franklin Delano Roosevelt per mano di Giuseppe Zangara, un muratore disoccupato calabrese: il presidente democratico si trovava a un comizio a Miami e si salvò solo per un inconveniente. Infatti, a causa di una sedia traballante, l’attentatore indirizzò i proiettili verso altre quattro persone, uccidendole. Harry Truman, invece, nel 1950 fu quasi assassinato da due indipendentisti portoricani mentre si trovava nella sua casa a Washington. I colpevoli furono individuati e fermati prima di entrare, uno venne catturato e l’altro ucciso.

Si passa poi agli anni ’70, noti per la matrice violenta che ha caratterizzato la decade negli Stati Uniti, ma anche in tutta Europa. Furono tre, infatti, i casi di violenza politica: nel 1972, il candidato democratico George Wallace fu colpito dagli spari di uno psicopatico, Arthur Bremer; nel 1975 gli agenti dei servizi sventarono due possibili attacchi a Gerarld Ford, avvenuti nel giro di quindici giorni per mano prima di Lynette Fromme, ex affiliata a una setta, poi di Sara Jane Moore.

Fu infine il turno di Ronald Reagan: nel 1981 John Hinckley Jr, uno stalker, ferì il presidente con diversi colpi mentre stava uscendo dall’Hilton di Washington. In particolare, fu un proiettile che rimbalzò sulla limousine a colpire il repubblicano e a costringerlo a 12 giorni in ospedale. Durante questo episodio, fu ferito gravemente l’addetto stampa Jim Brady, da cui prese il nome la cosiddetta “Bill Brady” – la legge volta a prevenire gli attacchi a mano armata – che introdusse controlli su coloro che avrebbero voluto acquistare pistole, fucili o altri mezzi simili. Il provvedimento, almeno inizialmente, produsse conseguenze positive abbassando il numero delle vittime, ma poi con il passare degli anni il tasso di violenza prodotta da armi da fuoco in America è tornato a salire.

Nonostante gli attimi di terrore, questi casi si sono risolti positivamente, ma la storia dell’America è macchiata di quattro attacchi riusciti.

La prima vittima fu Abraham Lincoln nel 1865: l’attore John Wilkes Booth sparò al presidente durante uno spettacolo teatrale a Washington, lo colpì alla testa e provocò la sua morte. Qualche anno dopo, nel 1881, James Garfield fu assassinato per mano dell’avvocato Charles J. Guiteau, ma si spense a distanza di due mesi e mezzo a causa di un aggravamento delle ferite.

Anche il XX secolo si aprì con il sangue: William McKinley fu attaccato dall’anarchico Leon Czolgosz durante un’esposizione a Buffalo. Dopo una settimana, le infezioni provocate dagli spari lo portarono alla morte. L’assassinio più celebre è, infine, quello di John Fitzgerald Kennedy: nel 1963 il presidente stava partecipando a una parata in un’auto scoperchiata a Dallas, quando Lee Harvey, ex marine, lo centrò con un’arma alla testa e al collo.

Una volta portato in ospedale, i medici non riuscirono a salvarlo e morì poco dopo. L’episodio è considerato uno spartiacque negli Stati Uniti: un omicidio che ha colpito l’opinione pubblica, generando domande che ancora oggi sono senza risposta e aprendo uno scenario di inquietudine per tutto il popolo. L’assassinio di Kennedy, infatti, segna la fine di un’era positiva per il Paese e l’inizio di un’epoca di disordini che ebbe un impatto sul mondo intero.

Dagli anni ’90 in poi a intimorire i cittadini americani sono stati anche i tentativi mal riusciti perché rintracciati ancor prima di essere messi in atto. Nel 1993 fu programmato l’attacco a George H. W. Bush, mai avvenuto; nel 1995 la carovana di auto che stava portando Bill Clinton a Manila, nelle Filippine, cambiò strada evitando un ponte sul quale era stata posizionata una bomba da Al-Qaida. Ma ancora, nel 2005 in Georgia (l’ex repubblica sovietica) qualcuno lanciò una granata sul palco durante un discorso di George W. Bush, ma l’arma non esplose.

Ci furono, poi, diversi tentativi di uccidere Barak Obama, tra essi si ricorda il caso del 2013: una lettera contenente una dose di veleno fu mandata alla Casa Bianca, ma fu intercettata dal personale avente i giusti mezzi per non essere intossicato. E ora gli episodi che hanno visto Trump come bersaglio lasciano l’intero popolo statunitense, ma non solo, allarmato e dubbioso sulla sicurezza del Paese.

Le criticità di questi eventi fanno sorgere molte domande. Prendendo in considerazione l’ultimo attacco al tycoon, viene spontaneo chiedersi: nessuno si è accorto della presenza di Ryan Routh? Perché il Secret Service non ha condotto controlli preventivi? Come è venuto a conoscenza del luogo in cui si trovava il candidato repubblicano? Ci sono complici?

L’analisi delle debolezze del sistema statunitense è ormai al centro dell’attenzione pubblica: il fatto che due episodi di questa portata siano avvenuti in un periodo così ravvicinato evidenzia una falla nella sicurezza e il bisogno di agire. Risulta necessario, ora più che mai, rivedere i protocolli di intervento del Secret Service, ma anche le tattiche e i metodi di lavoro, mettendo a disposizione una forza più ampia.

Insomma, questi episodi spiegano in profondità l’essenza stessa della storia e della società statunitense: un mondo sempre più alimentato dalla violenza verbale dei due partiti, i cui esponenti descrivono l’oppositore come una minaccia esistenziale e un avversario da eliminare. Un mondo in cui le armi sono facilmente reperibili, si trovano in ogni casa e vengono affidate anche ai bambini. Un mondo in cui pistole e fucili non sono visti come problemi perché alla base di tutti i casi di violenza vengono evidenziate altre criticità del colpevole, come la sua salute mentale, la sua situazione economica o la sua condizione familiare.

Michela De Marchi
Studentessa di Scienze umanistiche per la comunicazione che aspira a diventare una giornalista. Sono molto ambiziosa e tendo a dare il meglio di me in ogni situazione. Danza, libri e viaggi sono solo alcune delle cose che mi caratterizzano.

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