Se l’ultimo secolo di letteratura sudamericana ci ha preparato a qualche cosa, quest’ultima sarà sicuramente una pura e primordiale coscienza del non aver vissuto.
Leggendo I detective selvaggi di Bolaño, passando per i fantastici ed inquietanti mondi soverchiati da Borges e rivivendo i cent’anni di solitudine di Garcia Marquez; una sensazione si fa chiara in noi, lettori d’oltremare, europei dallo spirito e dalla cultura multiforme: noi, quei mondi non li abbiamo mai vissuti sulla nostra pelle.
Più che in ogni altra cultura, addentrarsi in una vicenda sudamericana significa primariamente riconoscere in sé stessi uno straniamento, un incontro in cui da quelle centinaia o migliaia di pagine sarà possibile intuire, ma mai esaurire.
Veniamo così ostacolati da radici uniche, ancestrali, da valori che pongono in essere un Senso diverso: la guerra, l’amore, la morte si riempiono di una storia passata, riportando le parole ad inchiostro, ad un Segno di passi solcati da chi, prima di noi quelle radici le ha viste crescere.
È dunque da un simile smarrimento che si instaura quello straordinario mosaico di vita che Ernesto Sabato, attorno ai primi anni ’60 si decide a comporre. Perché è proprio vero che Sopra eroi e tombe non potrebbe essere descritto altrimenti:
un groviglio di anime, che drammaticamente chiedono di essere guardate, di essere attraversate; un tentativo disperato di agire e prendere la parola, un intreccio di tempi distanti ma accomunati da un unico grande spazio, la città infinita di Buenos Aires.
Sopra eroi e tombe si apre a noi proprio con una cartina della capitale, che rimarrà affissa, a quella pagina iniziale come monito dell’intero romanzo: la storia inizia e si conclude puntualmente qui, e tale rimarrà come unica coordinata certa, come assioma matematico a cui ogni tratto narrativo, inevitabilmente dovrà rifarsi.
L’intero intreccio narrativo si sviluppa frontalmente, in un atto di cronaca quale l’efferato omicidio di una donna, Alejandra nei confronti del padre, Fernando. Il dato in sé, ci rivela del collasso dell’antica famiglia nobiliare argentina degli Olmos, fra le più influenti nel Paese; dalle cui ceneri l’autore viaggerà a ritroso, intessendo quattro parti complessive che ripercorrono l’inestricabile ruolo degli antenati di Alejandra nelle vicende argentine, dagli albori dell’800 a questa parte. Sàbato, discorrendo gradualmente lungo le sezioni e le figure che ivi troveremo, ci consegna di fatto i motivi, che ci porteranno ad avvicinarci sempre di più a quell’anonimo atto di crudeltà. La cronaca cupa e opaca delle indagini, del luogo del delitto, del movente e dell’assassino, lascia spazio immediatamente ad una narrazione che andrà scardinandosi in quel grumo di vita e azione che è la colpevole del parricidio.
Alejandra, più che in un personaggio, si racchiude in un fluire incontrastato di umanità, che deborda costantemente e ancora una volta argina il lettore a quell’affascinante estraneità, ad un agire che si spiega con accenni, omissioni, nei suoi più reconditi e misteriosi bisogni, ad aggrapparsi ad una vita.
Questa insaziabile vitalità è sprigionata nella relazione con Martìn, che quasi in antitesi con lei, ricalca i lineamenti di un giovane ingenuo, annoiato dalla propria banalità, che insegue ossessivamente l’ombra di quella donna e del mondo di cui è intrisa.
Nel rapporto fra i due si svela esattamente quella condizione subalterna, di accesso ad una Verità, che d’improvviso si nega e si complica; ad una morte che diviene parte della storia stessa dell’Argentina, dalle guerre civili ottocentesche fino ai vicoli trasandati di Buenos Aires in cui si trovano a vagare. D’altro canto, la disomogeneità di una storia che mescola due secoli diversi, in cui il racconto e la digressione padroneggiano, lascia spazio ad una magnifica contraddizione.
La penna di Sàbato si fa strumento visibile e ostentato, per ricondurre ognuna delle moltitudini di vicende sulle esistenze degli antenati degli Olmos ad una ineluttabile corrispondenza, ad uno stile organico e colorito, in cui ognuno dei distinti e raffinati particolari di cui Alejandra ha reso partecipe Martin si risemantizzano.
Ciò ci costringe a fare un passo indietro, a cercare di carpire il quadro nel suo insieme, a riordinarci all’interno di quel’oceano di ardore, di avventure e battaglie che tappezzano villa Olmos.
Leggere Sopra eroi e tombe significa innanzitutto rimodulare il proprio rapporto con la Storia, ripristinando la postura a quella di un neofita della disciplina, che si accorge, come istintivamente, che tutto ciò che è successo prima di lui non può che investirlo, non può che essere fin troppo e allora, ad occhi socchiusi cerca di scrutarne alcuni sporadici frammenti. Quello che più sorprende infatti, non si ricava dalle rivelazioni e dal colpo di scena conclusivo, bensì proprio nella radice di una Domanda, che si esaspera leggendo di Alejandra e della sua costante corsa verso una speranza di coinvolgersi, di essere qualcuno di univoco in questo mondo che sembra non appartenerle più: desiderare, al termine del libro, di aver finalmente vissuto.