Del: 21 Settembre 2024 Di: Michele Cacciapuoti Commenti: 0

«Certi toni violenti della sinistra rischiano di armare i deboli di mente»: così si esprimeva su Instagram il ministro Matteo Salvini, all’indomani dell’attentato a Donald Trump del 13 luglio scorso (analogamente ad altri leader di destra).

Dopo il presunto secondo attentato del 15 settembre, Trump ha incolpato la «retorica» e il «linguaggio provocatorio» dei Democratici. Stanti l’ingiustificabilità di un omicidio politico e il non chiaro inquadramento ideologico dei due attentatori, diverse voci (come i giornalisti Claudia Fusani e Alessandro Luna o il deputato Aboubakar Soumahoro) hanno sostenuto invece che l’inquinamento del dibattito pubblico, la denigrazione dell’avversario e l’involuzione violenta della retorica politica vadano imputate soprattutto alla destra – non sempre specificando se ci si riferisca a una “destra globale” o a Trump nello specifico.

Nel secondo caso, è difficile negare le responsabilità dei trumpiani; tuttavia, fra il registrare questa asimmetria e il dipingere un quadro manicheo (con i Repubblicani ridotti a novello asse del Male e i Democratici “senza macchia”), il salto logico non è da poco.

D’altronde, se di un Paese come gli Stati Uniti si parla addirittura come sull’orlo di una guerra civile (tirando in gioco anche Civil War, l’ultimo film di Alex Garland), è plausibile che entrambi gli schieramenti abbiano avuto un ruolo in questa polarizzazione, pur con le asimmetrie di cui sopra.

Mentre nel 2020 Biden vinse presentandosi come un pater patriae unificatore e non divisore (una versione meno prosaica del nostro «nonno al servizio delle istituzioni», rafforzata dal passo indietro del 21 luglio in favore di Kamala Harris), quanto sono distanti oggi gli stili comunicativi del Presidente e della sua vice, fra di loro e rispetto a quello di Trump?

Kamala Harris

In primo luogo, occorre analizzare la retorica dell’ultimo Biden: specialmente dopo il dibattito di giugno, mentre la popolarità del Presidente uscente era in calo, i suoi toni e quelli del suo comitato sono sembrati incattiviti, indisponenti, trumpiani a diversi osservatori – fra cui Francesco Costa, che non può certo essere tacciato di pregiudizio anti-bideniano. 

Anche dopo il ritiro dalla corsa, Biden ha proseguito su questa linea, mutuando uno dei più noti marchi di fabbrica di Trump (l’invenzione di nomignoli sminuenti) e rivoltandoglielo contro, con un poco ingegnoso Donald Dump.

Di fronte a questa evoluzione, è stato quasi inevitabile riscontrare un cambio di passo nella comunicazione del comitato Harris: meno caustica, bellicosa, ansiogena; più allegra, propositiva, rivolta al futuro. Lo spartiacque, ancora più del dibattito di giugno, sembra essere stato l’attentato a Trump del mese successivo, alla luce del quale certe dichiarazioni di Biden quasi marziali (come l’indicazione di mettere il suo rivale «nel mirino») avevano assunto tinte decisamente fosche.

L’emblema della trasformazione comunicativa da Joe Biden a Kamala Harris è stato identificato soprattutto nell’utilizzo del termine weird (“bizzarro, strambo”) per descrivere i Repubblicani: questa strategia (di certo efficace nello sminuire, stuzzicare e in parte sconcertare i rivali) è stata descritta come molto meno astiosa e pericolosa rispetto a quella bideniana. È innegabile che si tratti di un attacco contro l’avversario diverso da quello di chi, come Nancy Pelosi, vedeva in lui una minaccia esistenziale da fermare a tutti i costi. Tuttavia, sembrano essere passati sottotraccia due importanti caveat.

La retorica weird

In primo luogo, la retorica sui Repubblicani weird preesiste al comitato Harris: per quanto l’invenzione dell’espressione venga attribuita al candidato vice Tim Walz e sia stata Harris a enfatizzarla oltremodo, era già presente in nuce nella comunicazione di Biden. 

Il comitato Biden (così come la sfidante Nikki Haley durante le primarie repubblicane) già da inizio anno accusava Trump di essere poco lucido mentalmente, in modo speculare a quanto quest’ultimo fa da anni parlando di Sleepy Joe: certamente le défaillance del Presidente erano ben più evidenti di quelle del rivale, perciò le illazioni sull’acume di Trump hanno attecchito davvero soltanto quando questi si è dovuto confrontare con la più giovane Harris, come evidenziato recentemente da Cecilia Sala. Eppure non sono nuove né queste critiche, né le loro modalità. 

L’anno scorso, infatti, su Vulcano Statale ricostruivamo come i circuiti mediatici repubblicani abbiano sistematicamente manipolato, ritagliato e volutamente equivocato molti filmati di Biden (prima della successiva e concreta débâcle), al fine di trasformare le sue dichiarazioni in frasi senza senso. La stessa cosa è stata fatta dallo schieramento opposto: non solo da parte di privati oppositori di Trump come lo youtuber Vic Berger, ma dello stesso Partito Democratico. A insistere sull’anzianità di Trump sono stati anche lo stratega dei Dem Keith Edwards e Now This, una piattaforma già sostenitrice di Bernie Sanders che in passato ha rilanciato fake news.

È qui che l’accusa di senilità incontra l’anticipazione della futura retorica sugli weird: in molti casi, la supposta poca lucidità di Trump è stata associata a un sottotesto spesso bislacco ed erotico. La specifica strategia, peraltro, è identica a quella usata da Trump contro Biden: riprendere un filmato in cui il leader politico interpreta ironicamente il suo avversario, decontestualizzandone le parole al punto che l’ironia non sia più evidente.

Sleepy Joe. La costruzione di un mito

Così Berger trasforma il «please, please, please» di Trump (la sua interpretazione di un Biden succube di Maduro) in una bizzarra allusione sessuale. E sulla stessa falsariga, un segmento in cui l’ex-Presidente impersonava un’atleta cisgender (con fine discriminatorio) è stato trasformato in un’altra scenetta osée, proprio a opera degli account ufficiali dei Dem (peraltro ripetutamente: prima a giugno e poi a luglio, evidentemente a corto di idee). La Meidas Touch, derivazione di un omonimo comitato filo-democratico del 2020, ha remixato il video ad agosto, associandolo ormai esplicitamente alla retorica sugli weird (il fil rouge, insomma, è chiaro). 

Analogamente, una locuzione inerente al golf («ten strokes aside») pronunciata da Trump in Florida quattro giorni prima dell’attentato in Pennsylvania è stata distorta in un’avance nei confronti di Biden, ricontestualizzata come se fosse stata pronunciata proprio il giorno dell’attentato (in questo caso però i Dem non c’entrano: il video è stato diffuso da @repostfypcentral, una pagina Instagram che pubblica e ricondivide meme).

La trumpizzazione di Kamala Harris

Il secondo caveat, intuibile corollario del primo, è che se la retorica di Kamala Harris sugli weird discende dalla comunicazione di Biden (e in particolare dell’ultimo Biden, quello incattivito poiché annaspante), allora anche la nuova candidata Dem ha dei punti di contatto con le strategie mediatiche trumpiane

Innanzitutto la stessa insistenza sui Repubblicani come weird, ancorché meno “esistenziale”, risulta altrettanto polarizzante e divisiva e, forse, anche meno corretta e “sportiva” rispetto alla retorica precedente (che quantomeno attaccava gli avversari da una prospettiva politica e non personale, ad hominem). Resta però un interrogativo: chi viene definito “strambo”? Solo Trump? J.D. Vance? I politici repubblicani, i funzionari di partito, gli attivisti, gli elettori, i meri simpatizzanti? 

Nel momento in cui quasi metà dei cittadini votanti viene definita collettivamente weird, il rischio è quello dell’ostracismo e della demonizzazione dell’altro, che rinsalda la contrapposizione in due schieramenti: senza abusare del concetto di caccia alle streghe, questa comunicazione sdogana un linguaggio escludente e marginalizzante. Appena dopo la sua candidatura a vice, Walz diceva «[…] lo percepite. Questi tizi sono creepy e sì, proprio weird». È dunque lo stesso coniatore della locuzione ad associare il termine a creepy o peggio al denigratorio creep (generalmente riferito a una persona inquietante, eccentrica e reietta). 

La sopracitata Sala descrive la strategia di Harris durante il dibattito come meno demonizzante rispetto a quella di Biden, ma pur sempre volta a deridere Trump, a «sfotterlo». Inoltre, a prescindere che si tratti o meno di weirdness, i Democratici non sono esenti dall’uso di tecniche divenute ormai stereotipicamente trumpiane, come la disinformazione: è ancora Walz (in una prestazione da «attack dog» più che da pacioso coach, secondo Variety) a giocare sulla fake news secondo cui il suo rivale J.D. Vance avrebbe ammesso episodi autoerotici concernenti un divano; si tratta di un tema da cui il politico non si è districato con grande capacità, ma che rappresenta in ogni caso una falsa accusa, peraltro piuttosto intima e infamante (paragonabile al repost di Trump di un’insinuazione sessuale su Kamala Harris e Hillary Clinton).

Kamala Harris

La CNN ha condotto un sistematico fact-checking sui Democratici. A un livello inferiore (riguardante privati cittadini e simpatizzanti democratici, non per questo meno rilevante), a luglio sono fiorite le teorie del complotto anche da sinistra sull’attentato a Trump. È arrivata fino alla CNN l’immagine modificata di un Trump ingrassato. È tornato a circolare un altro fotomontaggio imbruttito dell’ex-Presidente, in giro in realtà da sette anni. È stato confezionato un finto tweet che collegava Elon Musk all’ex-deputato George Santos, con un sottotesto omo-transfobico.

Non solo falsità: sono di “matrice trumpiana” anche i montaggi di un Trump-gallina in quanto vigliacco, a opera degli account ufficiali di Harris e di Meidas Touch; è trumpiano paragonare Vance all’alieno di Star Wars Chewbacca; lo è la presa in giro dell’orecchio ferito di Trump; lo è il meme che deride Kennedy Jr. per la tigna di cui aveva sofferto, con un format che istituisce un legame fra Walz e l’allora Vicepresidente Biden nei meme del 2016 (lo stesso autore ha peraltro spacciato come vero un altro fotomontaggio di Trump, circolante dal 2020). 

Trumpiana è la tecnica del trolling: coniata per descrivere commenti provocatori e volutamente indignanti su Internet (il cosiddetto ragebaiting), la locuzione è stata notoriamente associata a Trump (o ai cosiddetti troll russi, anche in Italia). Oggi invece viene usata con sempre maggior disinvoltura per descrivere proprio le provocazioni di Harris, nonché la sua strategia al dibattito del 10 settembre (come già la strategia di Biden).

Trumpiano è poi l’atteggiamento evasivo se non arrogante nei confronti di contestatori e giornalisti (anche al dibattito di settembre), atteggiamento peraltro mutuato proprio da Biden: il Presidente non solo ha recentemente detto a un reporter «Devi stare zitto», ma istruiva la stampa su come scrivere bene di lui, e da tempo capita che eviti le domande dei giornalisti.

Trumpiane e soprattutto meloniane sono quelle che in Italia abbiamo preso a chiamare “faccette”, le espressioni mute con cui Harris ha aggirato lo spegnimento del microfono mentre parlava Trump al dibattito (di fatto, ciò che Biden recriminava a Trump dopo il vis-à-vis di giugno), definendo anche fra i denti l’avversario un «motherfucker».

Del resto qualche voce autorevole che fa notare tutto questo c’è: durante la convention democratica di agosto, Pete Buttigieg (Segretario ai Trasporti) ha criticato chi dipinge l’avversario come nemico (ma parlava dei Repubblicani). Barack Obama ha tenuto un discorso severo sull’apertura al dissenso, contro la comunicazione urlata, contro la demonizzazione dei rivali (reminiscente delle parole di Michelle Obama alla convention del 2016, «quando loro si abbassano, noi saliamo»).

Eppure l’ex-Presidente ha tenuto ugualmente a citare l’ossessione di Trump per le dimensioni dei comizi (ritornata nel dibattito di settembre), alludendo ai suoi organi genitali – allusione lamentata dal comico Zac Sherwin. D’altronde, neanche i Dem sembrano esenti dalla gara a chi ha i comizi più fitti.

Kamala Harris

Kamala Harris è cringe?

A quanto detto finora si accosterebbe un ulteriore discorso, intimamente legato ma qui solo accennabile: la svolta comunicativa di Harris, col suo ringiovanimento brat, è stata davvero «magistrale»? Fino alla sua candidatura a luglio, la Vicepresidente era ricordata come non solo messa in ombra da Biden, ma fuori luogo, imbarazzante, cringe (weird?): il clima più positivo concernente la sua entrata in campo, l’effettivo exploit iniziale nei sondaggi e nelle raccolte fondi, la dominanza nel dibattito e il contrasto con Biden non hanno forse portato a sopravvalutare quanto in fretta Harris si sia spogliata della sua immagine cringe, ripresentandosi come un foglio bianco? 

È vero che proprio la retorica su un Trump quasi demente, un Vance weird e un Musk strambo giocano a suo favore; che il nomignolo di Laughing Kamala non sembra efficace; che le provocazioni di Trump cadono nel vuoto. È vero che oggi il comitato Harris sembra aver rivendicato vecchie gaffe e prese in giro (come il discorso sulle palme da cocco), ma talvolta ci si dimentica che la viralità di queste clip resta ancora oggi in parte derisoria. 

Sono virali a loro volta accuse di cringe contro Nancy Pelosi, Clinton e Harris stessa: tralasciando le critiche più di parte (anche da sinistra), conviene studiare la persistenza di questa immagine della candidata fra comici e imitatori. Questi ultimi sono almeno sulla carta super partes, anche se proprio per questo rischiano di sovrarappresentare le critiche a uno dei due schieramenti, cercando la par condicio

La conclusione non vuole essere un assoluto e qualunquista relativismo, per cui Kamala Harris e Donald Trump si equivalgano, anzi. Il secondo primeggia in quanto a fake news, fotomontaggi e atteggiamenti antidemocratici; la base repubblicana ha sfornato prese in giro sull’infertilità di Walz e altre infamanti falsità. Peraltro, l’analogia fra modi e toni dei due candidati non si traduce nelle loro politiche (pur rifiutando una dicotomia formalista fra contenuto e contenitore). Non ci sono il Bene e il Male, ma certamente esistono meglio e peggio.

È vero anche che la polarizzazione comunicativa è in parte obbligata dal sistema bipolare americano e che la riproposizione di un candidato rassicurante e unificante (à la 2020) sarebbe parsa stantia. 

Il punto è piuttosto, ogni volta che si critica la sinistra perché seriosa e superata comunicativamente dalla destra, ricordare che: quello stile non è prerogativa solo della destra (negli USA, campioni di misoginia furono i Bernie Bros filo-Sanders, oggi paragonati ai filo-Musk); che questo è quello che accade quando si rincorre quella retorica, come si è visto con le uscite imbarazzanti dei social laburisti nelle elezioni britanniche di luglio, anch’esse basate su un Sunak weird e su uno stile volutamente laconico e millennial (degno di nota che il comitato Harris sia stato consigliato proprio dalla stratega labour Mattinson). Del resto la critica alla comunicazione di sinistra, anche in Italia, appare più una finta critica (solamente estetica) per risultare super partes.

Senza idealismi puritani (in campagna ci si scontra) né rimpianti morotei di una Prima Repubblica americana in cui i confronti erano civili; senza manicheismi ma anche senza populisti partiti dell’onestà e della correttezza (che sono valori auspicabili trasversalmente), è sufficiente notare, a distanza di otto anni, che la trumpizzazione del dibattito ha avuto le sue conseguenze.

Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.

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