Del: 24 Settembre 2024 Di: Alessandra Telesco Commenti: 0
L'Iran di Pezeshkian, tra dubbi e speranze su un sistema immutabile

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Mosoud Pezeshkian, cardiochirurgo di origine azero-curda, leader riformista e nuovo presidente dell’Iran, ha suscitato un certo ottimismo tra la popolazione, specialmente per il movimento femminile in Medio Oriente, che dall’uccisione di Masha Amini è aumentato di intensità. L’establishment della Repubblica islamica, alle elezioni di luglio 2024, aveva ammesso alla corsa un candidato riformista debole, immaginando che una piccola apertura avrebbe aiutato l’affluenza, per evitare di replicare le elezioni del 2021, quelle vinte da Ebrahim Raisi, l’ex presidente che a maggio è morto in uno schianto con l’elicottero presidenziale, quando si era registrato il precedente minimo storico dalla fondazione della Repubblica Islamica, poco sopra il 48%.

Il regime ha perso la sua scommessa e anche le previsioni degli analisti sono state sconfessate dagli eventi:

l’aspettativa generale era che un’affluenza ai minimi avrebbe avvantaggiato il candidato prediletto dal clero e dai Pasdaran. Il nuovo presidente dice onestamente che sarebbe meglio dialogare con l’Occidente piuttosto che perseverare con l’economia di resistenza e parla di allentare le rigide politiche sociali, soprattutto nei confronti delle donne, dice anche che la legge sul velo obbligatorio andrebbe rivista.

Molti iraniani rimangono scettici sulle sue promesse fatte in campagna elettorale, poiché la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e non il presidente, è l’autorità suprema della Repubblica Islamica. Comunque, gli iraniani, quei pochi che si sono diretti alle urne, hanno preferito il candidato debole, il primo presidente riformista in due decenni, all’ultraconservatore Saeed Jalili, la cui portavoce della campagna elettorale è una che dice che se una donna è libera di non mettere il velo, allora anche l’uomo che viene provocato da lei è libero di aggredirla.

Mosoud Pezeshkian ha vinto perché una grande percentuale degli iraniani che è andato a votare ha scelto il candidato che non è un fan della polizia morale o dell’approccio violento dei Pasdaran, se questo si somma a chi non si è diretto alle urne per non legittimare il sistema, si ottiene la maggioranza schiacciante.

Con le elezioni di luglio 2024 l’Iran ha registrato un’astensione da record: solo il 41% degli aventi diritto alle urne.

Da una parte questo dato riflette una competizione priva di significato, principalmente per i cittadini e le donne che non credono in un cambiamento e non si fidano del sistema; dall’altra, l’inimmaginabile vittoria del candidato riformista in un contesto da record di astensione, consolida un cambiamento che è indubbiamente cominciato.

Said Azimi, un giornalista e analista iraniano, spiega: «Che si tratti di fare le riforme economiche della corruzione della repressione di parità di diritti tra gli uomini e le donne oppure di ridurre l’isolamento internazionale dell’Iran, gli iraniani sono più uniti che mai contro lo status quo». Milioni di voti dei 24 totali, comunque, erano nulli. Erano di persone che si sentivano costrette a farsi vedere in fila ai seggi, magari perché sono dipendenti pubblici, ma che poi non hanno espresso nessuna preferenza perché non credono di poter cambiare il sistema nelle urne o perché non si fidano di nessuno degli schieramenti politici.

Le donne e i candidati che chiedevano un cambiamento di sostanza non sono stati ammessi alla corsa dal Consiglio dei Guardiani. C’è da dire, però, che agli iraniani non serve cambiare il presidente, che comunque ha poco potere, ma rovesciare il sistema. Mosoud Pezeshkian, il “dottore”, è considerato da tanti colluso con il sistema: il fatto che sia stato l’unico candidato riformista ammesso nello schieramento all’opposizione insospettisce i dissidenti, i manifestanti e le decine di migliaia di donne che non indossano più il velo.

Come spesso accade in tempo di elezioni, il problema che si propone è sempre lo stesso: se non si va a votare per chi si considera il meno peggio, ci si ritrova governati da qualcuno che ha interesse a mantenere invariata la situazione vigente; in questo caso, da un autocrate islamista con una portavoce che giustifica la violenza degli uomini contro le donne che non si coprono.

La Repubblica Islamica si basa su una costituzione democratica con particolarità che la rendono una teocrazia, in cui il clero ha un ruolo nel governo:

gli ayatollah hanno la metà dei seggi all’interno del Consiglio dei Guardiani e anche la Guida Suprema deve essere un ayatollah per poter ricoprire questo ruolo. Sebbene il presidente abbia il potere di nomina sui membri del governo e diritto di veto su ogni emendamento del parlamento, molti degli incarichi che normalmente spettano al Capo di Stato, ricadono nelle mani della Guida Suprema e del Consiglio dei Guardiani della Costituzione, che hanno il potere di delineare le politiche generali della Repubblica Islamica, oltre a controllare le forze armate e avere il potere di nomina e destituzione di vari membri del governo, compreso il presidente.

Anche per questo il governo ha pochi margini di manovra: non bisogna aspettarsi grandi cambiamenti, a breve termine, in campo internazionale e nella politica interna, dal momento che il margine di azione del presidente e del suo ministro degli Esteri rimane estremamente limitato in favore della Guida Suprema. Ciononostante, l’astensionismo, la scarsa affluenza e le divisioni tra i conservatori spingono a una riflessione sulle cause che hanno portato a tale esito.

L’Iran dal settembre 1993, secondo Anthony Lake, il consigliere per la sicurezza internazionale di Bill Clinton, fa parte di un elenco di cinque Paesi considerati “Stati canaglia”, ovvero Stati contrari, riottosi, recalcitranti a ogni ideale di democrazia e libero mercato.

I Backlash States presentano tutti alcune caratteristiche che li rendono riconoscibili: sono stati autoritari, marchiati da una compressione dei diritti umani e non hanno la capacità di collaborare sul piano internazionale con qualsiasi altra realtà statuale. Ciò comporta una inevitabile diffidenza nei confronti di chiunque all’interno (verso il proprio popolo) e all’esterno (verso tutti gli altri), a partire, anzitutto, dai vicini di casa.

La mancanza di confronto e il rifiuto di voler stabilire dei rapporti di collaborazione con chiunque ha una logica conseguenza: la nascita di un sentimento di accerchiamento da parte del regime e una vera e propria paranoia che porta il tiranno e la sua schiera a sentirsi minacciati da tutti. L’impressione è che in molti casi la definizione di “Stato canaglia” sia in realtà stata utilizzata nei confronti di Stati che si sono dichiarati contrari alla politica estera degli Stati Uniti d’America.

C’è addirittura chi, come il grande filosofo e linguista Noam Chomsky, sostiene che gli Stati Uniti stessi sono uno Stato canaglia. Il concetto di Stato canaglia e di compilare schede attraverso cui catalogare i diversi Paesi sulla base del potenziale tasso di minaccia e di pericolosità nei confronti del mondo occidentale e quindi di stilare una blacklist, è un concetto, insieme a quello di “Asse del Male”, entrambi figli di un’unica madre: gli Stati Uniti. È evidente che si tratti di definizioni piuttosto propagandistiche, che fanno ben comprendere come siano gli americani a voler stabilire chi siano i buoni e chi i cattivi, attribuendo patenti di legittimità all’uno o all’altro Stato, il termine si riferisce a chiunque sia fuori dal controllo statunitense.

Se da una parte un Paese come l’Iran non permette nessuna forma di dissenso, reprimendo ogni manifestazione libera e democratica del proprio popolo, dall’altra ha bisogno dei suoi cervelli, che sono gli studenti e gli ex studenti universitari scesi in piazza per Masha Amini, ed è quindi costretto a tollerare le ribellioni non più silenziose di alcuni giovani dipendenti per continuare a funzionare. 

L’economia iraniana è un oligopolio in mano ai mullah e ai Guardiani della rivoluzione e il posto dove la si può capire meglio è Mashhad, a est verso il confine con il Turkmenistan e con l’Afghanistan.

È lì che sono nati la Guida Suprema Ali Khamenei e l’ex presidente Ebrahim Raisi ed è da quel punto sulla mappa che si irradia il potere in Iran. Raisi era alla guida di una delle fondazioni di Mashhad che formano lo “Stato parallelo” e hanno in mano il PIL del Paese. Per i dipendenti dello Stato, ma anche per le donne e per gli uomini che lavorano per le aziende “private” delle fondazioni-holding, ovvero i nonni e i genitori di coloro che scendono in strada a combattere, manifestare significherebbe rischiare di perdere il posto di lavoro nel mezzo di una crisi prolungata, quindi con poche speranze di trovarne uno nuovo.

Adesso non è più così. Il 70% degli iraniani ha meno di 35 anni ed è in una condizione diversa perché la macchina economica degli ayatollah si è inceppata: da quel sistema che per decenni ha dato uno stipendio ai cittadini della Repubblica Islamica i giovani erano già rimasti esclusi. I nuovi iraniani hanno creato dal nulla un’economia parallela e autosufficiente, di cui spesso sono sia i lavoratori sia i clienti, e questo fa arrabbiare il regime perché è al di fuori del suo controllo. E perché ha formato la prima generazione di cittadini che non dipende dagli ayatollah per vivere, cioè la condizione per una rivolta. 

L’Iran produce molti più giovani ultra-qualificati di quelli che la sua economia riesce ad assorbire. In Italia gli uomini a laurearsi nelle facoltà STEM sono il 78% e le donne il 22, ma il settore è dominato da maschi in tutto il mondo: il 65% degli studenti STEM sono uomini.  La Repubblica Islamica è un’eccezione. L’Università Sharif di Teheran ha un nome in codice: la “fabbrica dei geni” che, pur non avendo né i mezzi né i laboratori del MIT di Boston, è indicata come il MIT del Medio Oriente e vanta, sopra ogni altra cosa, l’esclusiva di avere più ragazze che ragazzi che studiano nel Politecnico. La Sharif è un’eccellenza, un marchio che chi la frequenta si porta dietro per tutta la vita, un nome che è diventato quasi un modo di dire per indicare una persona sveglia, emancipata, che studia o ha studiato materie impegnative, che guadagna o guadagnerà piuttosto bene. 

Il governo iraniano non riesce ad annettere i giovani.

Ne assume qualcuno per poi fargli svolgere mansioni spesso lontane da quelle che sognava quando ha incominciato a studiare, con un prodotto interno lordo che rinsecchisce anno dopo anno e i nuovi posti di lavoro sono comunque pochi. L’esclusione dei giovani dall’economia tradizionale ha creato, però, una massa di persone che non dipende dal governo per pagarsi l’affitto: la generazione che protesta è la stessa che negli ultimi anni aveva separato il proprio destino lavorativo dall’economia di regime.

È una generazione che ha dovuto arrangiarsi da sola e così nel 2016 sono nati Tapsi, il servizio di car sharing più diffuso in Iran, e poi AloPeyk, che è un’app per le consegne, e Bood, che è un’app di bikesharing e Aparat, lo Youtube locale. Ma anche Digikala e Zarinpal, fino agli aggregatori in rete che permettono a tutti di offrire ripetizioni di inglese, matematica, informatica e lezioni di chitarra, oppure di proporsi per andare a fare le pulizie o la spesa, cucinare, curare il gatto o le piante di qualcuno. Ci sono anche quelli che hanno creato marchi di bigiotteria artigianale, abbigliamento, tappeti persiani rivisitati e oggetti di design in metallo che vendono sulle app locali o su Instagram. 

Lavorare in un’economia autogestita li ha resi meno dipendenti dagli ayatollah perché non è da loro che ricevono gli stipendi. Esclusi i liceali, l’insieme dei manifestanti e dei lavoratori dell’economia indipendente quasi combaciano. Le bacheche sui social network dei fondatori delle startup, come quella di uno dei più famosi, Hessam Armandehi, che ha inventato l’Uber iraniano Divar, nei mesi di protesta si sono riempite di appelli per chiedere la liberazione dei propri dipendenti. Ci sono le loro foto allegate ai post: sono tutti ventenni e sono tutti stati arrestati mentre manifestavano in piazza per Masha Amini. 

Il governo ha le mani legate: nella riscrittura delle regole su velo e castità, la punizione più severa ipotizzata è quella che prevede, per le donne che dopo i richiami e le multe continuino a rifiutarsi di mettere il velo in testa, la fine di alcuni diritti sociali e, su tutti, il diritto all’istruzione.

In un paese dove la popolazione universitaria è a maggioranza femminile, è un affronto. 

Durante la presidenza di Ebrahim Raisi, la conservatrice e consigliera politica dell’ex presidente Sakine Sadat Paad ha pubblicamente affermato che un tale provvedimento risulta incostituzionale, e che, inoltre, la violazione delle norme da parte delle ragazze che non portano l’hijab non può essere punita con decisioni governative altrettanto illegali, non islamiche e completamente irrazionali. 

Curiosa e intraprendente, sempre pronta a partire per un nuovo viaggio e a imparare qualcosa in più sulla complessità del nostro mondo, con una particolare attenzione per il Medio Oriente.
Iscritta alla magistrale in geopolitica, amo raccontare il mio punto di vista sul mondo, a volte in prosa, a volte in poesia.

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