Il 22 gennaio, i Ministri dell’Interno, della Giustizia e della Difesa hanno presentato un disegno di legge (DDL) che prevede diverse modifiche al codice penale, tra cui l’introduzione di 24 nuovi reati. Dopo l’approvazione da parte del primo ramo del Parlamento il 18 settembre, il testo prosegue il suo iter legislativo ed è ora al vaglio del Senato.
Annunciato dal governo come un intervento necessario e provvidenziale per affrontare le crescenti sfide legate all’ordine pubblico, il DDL ha suscitato un acceso dibattito politico e sociale. Il ministro Salvini ha richiesto una «priorità assoluta» per la sua approvazione, sottolineando l’urgenza di misure più incisive. Allo stesso tempo, le opposizioni hanno criticato la sua legittimità costituzionale, accusando il provvedimento di rappresentare un attacco alle libertà individuali e collettive.
«Il disegno di legge sulla sicurezza reprime il dissenso e punta a creare sudditi invece di cittadini», ha dichiarato il Partito Democratico attraverso i social, evidenziando la possibile minaccia ai principi fondamentali dello stato di diritto.
Questo scenario preannuncia uno scontro aperto tra il governo e le forze di opposizione, sollevando interrogativi cruciali sulla direzione politica del paese. Cosa comporta effettivamente questa normativa? Quali sono le implicazioni che avrà nella vita quotidiana?
Il testo della riforma agisce a tutto tondo sul codice penale, modificandone la fisionomia. Il DDL è composto da norme che incidono su quattro macroaree principali: sono previsti nuovi reati e aumenti delle pene; il potenziamento delle tutele e delle garanzie per le forze dell’ordine e i servizi di intelligence; un inasprimento delle normative sugli stupefacenti, con la misura emblematica dello stop alla cannabis light; infine, una stretta sull’ordine pubblico, attraverso restrizioni sulle manifestazioni e sulle rivolte nelle carceri, nei CPR e nei centri di accoglienza per i migranti. Inoltre, a quest’ultimi sarà vietato acquistare schede SIM se privi di permesso di soggiorno.
L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), la più grande organizzazione intergovernativa di sicurezza al mondo, ha criticato in modo dettagliato il DDL raccomandando che «numerose disposizioni vengano riconsiderate interamente o modificate in modo sostanziale», e soffermandosi su alcune norme, tra cui quelle che criminalizzano il blocco pacifico della circolazione stradale e quelle che rendono possibile la detenzione per le donne incinte o con neonati di età inferiore all’anno.
In particolare, l’articolo 14 del DDL introduce sanzioni penali per chi impedisce pacificamente la circolazione su strade e ferrovie ostruendole con il proprio corpo. «È per evitare che ci siano persone che privano altri cittadini della libertà di circolazione» afferma Lucio Malan (FdI) in risposta alle critiche di «deriva illiberale» provenienti dalle opposizioni, le quali si sono viste respingere gli emendamenti proposti. Scegliere quale tra due diritti confliggenti sia prevalente (qui, libertà di circolazione o libertà di espressione e diritto di sciopero) è compito arduo anche per i migliori giuristi: ogni situazione presenta peculiarità che devono essere analizzate singolarmente.
In questo caso, una sintesi potrebbe essere escludere la punizione per il comportamento tenuto in sostegno di un’azione di sciopero o pubblica manifestazione? Non è certo.
È tuttavia evidente che una norma così scritta, con l’obiettivo di dissuadere futuri trasgressori dal commettere reati, rischia di violare diritti e principi fondamentali, come la proporzionalità della pena al fatto commesso o la tutela di una delle poche possibilità di espressione delle istanze delle minoranze.
Ancora, secondo l’OSCE, alcuni dei nuovi reati proposti hanno una formulazione ampia e vaga, che non specifica gli elementi costitutivi del reato e lascia spazio a potenziali interpretazioni e applicazioni arbitrarie da parte dei giudici.
L’indeterminatezza delle norme è il fondamento di potenziali decisioni basate su convinzioni personali, che comportano una disparità di trattamento di casi simili e, conseguentemente, una lesione del principio di eguaglianza. L’estensione del delitto di rivolta in carcere anche alle forme di “resistenza passiva” ne è un esempio: senza nessuna specificazione del significato di tale locuzione, i magistrati non hanno indizi per comprendere quali circostanze siano da ricondurre all’interno della fattispecie e per operare un’interpretazione conforme alla carta costituzionale.
L’ambiguità normativa, combinata con un indiscriminato aumento delle pene, evidenziano una concezione del carcere quale rimedio a tutti i mali e un sistema penale volto a reprimere più che a rieducare. Il carcere non dovrebbe essere considerato un deposito in cui abbandonare il maggior numero possibile di soggetti percepiti come un peso per la società. Reprimendo ulteriormente le istanze dei detenuti, si rinuncia al loro reinserimento nella comunità e si accetta passivamente la loro segregazione, dimenticando che in questa porzione di Paese vivono persone private della libertà, ma non anche dei diritti fondamentali. Lo dice la Costituzione. Ma in carcere che peso ha la Costituzione?
Il legislatore deve essere abile nel trovare un equilibrio tra la necessità di garantire sicurezza ed il rispetto delle libertà. È fondamentale promuovere un sistema penale che non si limiti a punire, ma che favorisca la prevenzione dei comportamenti criminosi, specialmente nel fragile contesto italiano, dove la situazione delle carceri è drammatica (70 suicidi da inizio anno e sovraffollamento al 132%) e la durata estrema dei processi fa sì che molti non vengano neanche conclusi e che ci siano numerosi detenuti in attesa di giudizio .
Aumentare le pene è un modo semplice per ottenere attenzione e titoli in prima pagina; è una soluzione spot che, evitando di investire risorse e tempo in una prevenzione sociale e culturale (i cui effetti non sono visibili brevi tempore), perde l’occasione di produrre risultati duraturi nel tempo, incidendo però su carceri e sistema giudiziario già sotto pressione, aumentando solamente la marginalità sociale.
In questo senso, risultano quanto mai attuali le parole di Cesare Beccaria: «uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità (cioè indefettibilità) di esse». La funzione deterrente che può avere una pena, per quanto severa sia, è inefficace se sussiste la possibilità che non sia eseguita, come spesso accade nel nostro Paese a causa dell’elevato tasso di processi che cadono in prescrizione.
Inoltre, «solo un ordinamento penale sentito giusto nel suo insieme può portare la legittimità dei destinatari ad un’obbedienza volontaria», scriveva il penalista Giorgio Marinucci. Pene eccessivamente severe e sproporzionate, percepite come ingiuste, possono avere addirittura l’effetto opposto a quello sperato: un effetto criminogeno che spinge a compiere maggiori reati e non migliora la sicurezza.
Alla luce di ciò, il DDL sicurezza è tutto da buttare? Non è detto, le opposizioni potrebbero trovarsi d’accordo su alcuni argomenti e la maggioranza potrebbe accogliere qualche emendamento. È però una certezza che il Senato abbia l’occasione di migliorare il testo confrontandosi con le criticità emerse, ascoltando le raccomandazioni provenienti dalle organizzazioni internazionali e redigendo una legge che tuteli realmente la sicurezza, senza calpestare nessun diritto.
Articolo di Filippo Belgrano