Che un cambio di prospettiva da una filosofia del non-essere a una filosofia dell’essere possa porre fine alla cosiddetta “epoca dello scontento” in cui viviamo? Questa la tesi avanzata dal saggista pugliese Marcello Veneziani, classe ’55, durante il suo intervento intitolato L’epoca dello scontento – una passione che ci divora, in occasione della ventiquattresima edizione del Festival della Filosofia, tenutosi nelle città di Modena, Carpi e Sassuolo dal 13 al 15 settembre 2024.
L’epoca storica in cui viviamo, sostiene Veneziani, è dominata dalla scontentezza, uno stato d’animo che si manifesta come un forte senso di insoddisfazione dal carattere fortemente comparativo, in quanto non può prescindere dal rapporto di paragone con l’alterità e l’esteriorità. In questo senso, lo scontento si fa spazio in una diffusissima filosofia del non-essere, che pone il proprio sguardo su ciò che non si è, nella convinzione che solo una vita performativa e in continuo agone con se stessi e con gli altri possa donare contentezza.
A sostegno di questa tesi è venuta incontro l’accezione negativa, tipicamente leopardiana, attribuita all’immaginazione, a causa della quale tendiamo a confondere l’infinità delle nostre illusorie aspettative con la finitudine delle nostre effettive possibilità. Come ben spiega un passo dello Zibaldone di pensieri, più altrimenti noto come teoria del piacere, infatti, siamo per natura portati alla ricerca di una contentezza infinita che vada a soddisfare permanentemente l’illimitata vastità dei nostri desideri: ricerca che risulta essere vana perché tali piaceri, infiniti per numero, durata ed estensione, sono, di fatto, inesistenti.
Tuttavia, argomenta Veneziani, lo scontento non è da considerarsi un male, in quanto senza non vi potrebbe essere evoluzione:
esso è portatore di una forte carica costruttiva dato che ha la capacità di mettere in dubbio e di pretendere, impedendo così la stasi e garantendo invece il cambiamento.
L’ipotesi di soluzione, pertanto, non viene individuata in una progressiva rinuncia di stampo schopenhaueriano ai desideri, dove l’unico modo per soffrire meno consiste nel cessare le pretese. Bisogna capire invece che “rassegnarsi” e “accontentarsi” non hanno il medesimo significato, e che soltanto aprendosi a una filosofia dell’essere si potrà in qualche modo essere contenti «al quia», come dice Dante in Purgatorio, III, 37.
Accettare le imperfezioni della nostra esistenza, allargare i nostri orizzonti alla memoria passata e alla prospettiva futura, vivere la vita come una misteriosa ricerca, sono le sole condizioni per tornare a condurre una vita in virtù dell’amor fati, non circoscrivibile né alla scontentezza né alla soddisfazione permanenti.