L’arte della poesia è da sempre al centro di profonde riflessioni: cosa rende un testo poetico? È l’esperienza dell’autore, la sua biografia, o è il modo in cui il lettore interpreta e crea il significato indipendentemente dalla vita di chi l’ha scritto?
Da queste domande ha preso avvio l’incontro “Che cos’è un testo? Incontro con Roland Barthes e Stanley Fish”, organizzato da due ragazzi di Obiettivo studenti martedì 24 settembre presso la sede centrale della nostra università.
L’incontro si è aperto con la presentazione della biografia di Gianfranco Scolozzi: autore friulano vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, formatosi a Venezia, dove studia lettere. Fondamentali nella sua vita furono i legami con la sua terra, l’esperienza amorosa e l’esperienza di guerra sull’Isonzo, dove morirà. La guerra forma profondamente la sua poetica, e le sue poesie furono composte in trincea.
La sua opera principale, unica raccolta poetica rimasta, è Canti del Tagliamento.
Clames
Di renna,
Di biase, di maggio.
Marino
valente;
Monti valentino.
Prima di andare avanti, vi vorrei rivolgere la stessa richiesta che ci è stata posta: provate ad analizzare questa poesia, immaginando cosa vi suscita.
Con l’intervento di alcuni studenti che hanno partecipato alla discussione si è arrivati alla conclusione che si trattasse di una poesia che mettesse in antitesi due stagioni, l’inverno e la primavera, quindi allusione rispettivamente alla morte e alla vita. Secondo questa lettura, la poesia esprimerebbe il dolore della guerra, il legame con la sua terra, amori perduti e memorie di un tempo passato.
Un testo che sembrava uscito da una pagina di Ungaretti, o, forse, dal diario di un soldato dimenticato su qualche trincea, perso tra i monti del Friuli, si è rivelato in realtà l’elenco dei cognomi di un citofono.
L’episodio solleva alcune domande interessanti: come si riconosce una poesia quando ne si vede una? E fino a che punto la biografia dell’autore è necessaria o influente nell’interpretazione di un testo?
In questo caso, era un mero pretesto per avviare un processo interpretativo che, una volta iniziato, si è alimentato di suggestioni e riferimenti, indipendentemente dall’autenticità del contesto.
Il poeta sceglie con cura le parole, i suoni, i ritmi e le immagini per trasmettere emozioni, pensieri e riflessioni. Tuttavia, la poesia moderna e l’avanguardia hanno spesso sfidato queste convenzioni, mettendo in discussione cosa possa essere considerato arte e cosa no.
Artisti come i dadaisti o i surrealisti hanno trasformato oggetti e parole quotidiane in arte, sostenendo che il significato di un’opera non risiedesse necessariamente nell’intenzione dell’autore, ma che potesse essere creato dal lettore o dall’osservatore. In questo senso, anche i nomi di un citofono, decontestualizzati e presentati come poesia, possono diventare oggetto di interpretazione artistica.
Le parole possono risuonare di significati che il lettore, con il proprio bagaglio di conoscenze e sensibilità, è in grado di costruire.
La poesia, infatti, non è solo il risultato di una scelta consapevole da parte di un autore, ma può anche emergere dall’interazione tra il lettore e il testo.
Questo esperimento che ci è stato rivolto è stato tratto dall’esperienza di Stanley Eugene Fish (nato nel 1938), insegnante, filosofo e critico letterario statunitense.
Nell’estate del 1971 insegnava due corsi nella stessa aula sotto gli auspici congiunti del Linguistic Institute of America e del Dipartimento di inglese della State University of New York a Buffalo.
Dopo una lezione di linguistica, aveva scritto sulla lavagna un elenco di nomi di linguisti, da studiare per compito:
“p.43
Jacobs-Rosenbaum
Levin
Thorne
Hayes
Ohman (?)
Quando entrò la classe successiva, quella di letteratura cristiana, fu chiesto loro di interpretare il testo che si trovavano di fronte, partendo dal presupposto che si trattava di una poesia religiosa che non avevano affrontato.
“Non appena i miei studenti si sono resi conto che stavano vedendo poesia, hanno iniziato a guardare con occhi che vedono poesia, cioè con occhi che vedono tutto in relazione alle proprietà che sapevano che le poesie possedevano”.
I significati di una poesia, secondo Fish, non sono proprietà né di testi fissi e stabili né di lettori liberi e indipendenti, ma di comunità interpretative che sono responsabili della forma delle attività di un lettore e dei testi prodotti da quelle attività.
“L’interpretazione non è l’arte di analizzare i significati, bensì l’arte di costruirli. Gli interpreti non decodificano le poesie, le fanno”.
Un esempio concreto di questa visione può essere trovato nell’approccio di T.S. Eliot alla lettura della Divina Commedia di Dante. Eliot, inizialmente ignaro dell’italiano e privo di conoscenze critiche, riuscì comunque a cogliere il senso profondo dell’opera, solo per poi confermare, a una seconda lettura più consapevole, che i punti salienti individuati dai critici erano gli stessi su cui si era naturalmente soffermato precedentemente.
Paragona l’opera alla Pizia: concetti brevi, ma che hanno una pluralità di significati, da cui ciascuno può coglierne una parte.
Questo esperimento contraddice il tradizionale modo di interpretazione di un testo letterario, cioè che da dei tratti formali e contenutistici si arrivi a definire cos’è un testo.
A contrasto con la prospettiva di Fish si pone Roland Barthes, saggista, critico letterario, linguista e semiologo francese, che, nel suo Critica e Verità (1965), proponeva un approccio strutturalista: postula i 4 pilastri sui quali decide di costruire la nuova critica: i testi letterari possiedono certe proprietà, linguistiche o semiologiche, che li distinguono dai testi non letterari; il principio che regola l’esperienza letteraria è il primato del testo, nella sua presenza oggettiva su tutti gli altri fattori della comunicazione; negli studi letterari i metodi intrinseci di analisi sono gerarchicamente prioritari rispetto ai metodi estrinseci; ed è possibile e necessario fondare una teoria della letteratura, se non la critica letteraria stessa, nelle sue molteplici verità, su basi scientifiche.
Quindi nella riflessione di Barthes un testo deve essere interpretato indipendentemente dall’autore e dal suo contesto, è un oggetto autonomo, e il suo significato non risiede nell’intenzione dell’autore, ma nella sua capacità di generare sensi diversi a seconda del lettore e del contesto.
Un’opera è dunque eterna, non perché impone un senso unico a uomini diversi, ma perché suggerisce sensi diversi a un uomo unico, che parla sempre la stessa lingua simbolica attraverso pluralità di tempi.
“Ciò che fa sì che il giudizio della posteriorità sia più giusto di quello dei contemporanei, risiede nella morte. Non si sviluppa a modo proprio se non dopo la morte”.
F. Kafka
Se l’autore è morto chi sta parlando? Esiste un luogo dove la molteplicità del testo si riunisce?
Il lettore non è uguale alla comunità interpretativa di Fish: non decide il senso dell’opera, ma è il luogo dove il senso dell’opera si imbatte e risuona.
David Foster Wallace, scrittore e saggista statunitense, ha sottolineato come la letteratura abbia la capacità di abbattere le barriere della solitudine esistente, creando un legame unico tra scrittore e lettore.
«Oh Signore, potrei stare qui tutto il giorno a parlarne! Be’, il primo modo di approcciare la domanda è che il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o cosa si prova a stare dentro la tua testa, e tu non sai cosa si prova a stare dentro la mia. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro. Ma è solo un primo livello, perché l’idea dell’intimità mentale o emotiva con un personaggio è un’illusione, un meccanismo creato dallo scrittore attraverso la sua arte. C’è anche un altro livello su cui un testo letterario diventa una conversazione. Fra il lettore e lo scrittore si instaura un rapporto che è molto strano, molto complicato e difficile da descrivere. Un ottimo brano di letteratura non è detto che mi catturi completamente e mi faccia dimenticare che sono seduto in poltrona. C’è della narrativa commerciale che è perfettamente in grado di riuscirci; una trama avvincente è perfettamente in grado di riuscirci: ma non mi fa sentire meno solo.
Invece c’è una specie di: «A-ha! Qualcuno almeno per un attimo la pensa come me, o vede una cosa nel modo in cui la vedo io». Non capita sempre. Sono brevi flash, fiammate, ma ogni tanto mi capitano. E non mi sento più solo, a livello intellettuale, emotivo, spirituale. La letteratura e la poesia riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi in comunicazione profonda e significativa con un’altra coscienza, in un modo in cui non ci riescono altre forme d’arte».
Un antidoto contro la solitudine
In conclusione, la biografia dell’autore può certamente offrire chiavi di lettura importanti: conoscere il contesto personale e storico in cui un’opera è nata ci aiuta a comprenderla più profondamente, dando un senso che potrebbe sfuggire senza questa prospettiva.
D’altra parte, esiste anche un’altra dimensione: il potere del lettore di interpretare il testo attraverso il proprio vissuto. Un’opera, una volta pubblicata, non appartiene più esclusivamente a chi l’ha scritta, ma si apre a nuove interpretazioni, mutevoli e soggettive che dipendono dal bagaglio culturale e personale del lettore.
Che si tratti dunque di un poeta in trincea o di semplici cognomi su un citofono, il confine tra autore e lettore si dissolve, lasciando spazio a infinite interpretazioni. Forse, è proprio questa la vera essenza della poesia: autore e lettore si incontrano per creare insieme qualcosa di unico e irripetibile.
Articolo di Chiara Cardella