La guerra in corso tra Israele e Palestina è legata al conflitto tra Israele e Iran. Quest’ultimo non può infatti accettare una normalizzazione dei rapporti tra Israele, l’Arabia Saudita e, in generale, le potenze del Golfo e del Medio Oriente, dato che ciò lo porterebbe a essere isolato e, quindi, più debole. Insieme a una vasta parte del mondo arabo anti-israeliano è dunque deciso a boicottare gli Accordi di Abramo – stipulati dallo Stato di Israele con Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrein e Sudan – a qualsiasi costo, anche finanziando pericolosi gruppi armati. Non a caso l’Iran sostiene l’operato di Hamas, di Hezbollah e degli Houthi dello Yemen.
L’Iran esiste da più di 25 secoli: evolvendo e rinnovandosi ha perdurato fino ai giorni nostri, prima come impero e ora come Repubblica islamica, mantenendo – per quanto riguarda sfera di influenza e agenda politica – connotati imperiali. Nel XVI secolo l’Iran, allora Impero Persiano, era governato dalla dinastia safavide di etnia azera che introdusse la dottrina sciita: lo sciismo si diffuse rapidamente perché rappresentava un allontanamento dall’impero ottomano di religione sunnita. Per questo motivo, gli azeri sono una minoranza privilegiata in Iran e sono gli unici, insieme ai persiani, a ricoprire cariche di governo. Oltre a persiani e ad azeri, in Iran si trovano minoranze di curdi, di iuri, anch’essi indoeuropei, e di arabi, una parte dei quali è sunnita.
Questa lunghissima storia, ulteriormente glorificata dalla pedagogia iraniana, contribuisce a creare un forte senso di identità che connota l’Iran come un mondo a sé, diverso da tutti gli altri.
Per questo non si può pensare che i cambiamenti e le evoluzioni della società iraniana rispecchino quelli che ha vissuto la società occidentale. Ne è una prova la rivoluzione del 1979. Prima di quel momento il regime al governo era quello della dinastia Pahlavi, iniziata nel 1921, a seguito di un colpo di Stato, da Rida Khan Pahlavi, il quale si proclamò scià nel 1925. Pahlavi introdusse importanti riforme economiche e sociali, ma non riuscì a sottrarre la Persia alle ingerenze delle potenze straniere. Nel 1941 i tedeschi controllavano il paese e le risorse petrolifere; in seguito, una coalizione anglo-sovietica invase l’Iran per sottrarla all’influenza dei nazisti e obbligò lo scià ad abdicare in favore del figlio Muhammad Rida Pahlavi.
In questo lungo periodo lo scià si legò agli Stati Uniti e agli interessi delle compagnie petrolifere occidentali, stabilendo un regime sempre più autoritario e avviando un ampio programma di modernizzazione economica e sociale di stampo occidentale. Questa modernizzazione, soprattutto dal punto di vista sociale, era più di forma che di sostanza in quanto non attenuò i connotati autoritari del governo e non portò all’affermazione di una forma di democrazia paragonabile a quella occidentale. Inoltre, i diritti delle donne erano fittizi e minati da importanti violazioni delle loro libertà: ad esempio lo scià Rida Khan Pahlavi impose loro di non indossare il velo. Quando il figlio Muhammad tolse l’imposizione, le donne che sceglievano di indossarlo continuarono, tuttavia, ad essere discriminate a livello sociale e potevano anche essere escluse dagli incarichi pubblici.
La politica dello scià suscitò nel Paese un profondo scontento, che raggiunse il culmine verso la metà degli anni Settanta.
Ne raccolsero i frutti i seguaci dell’ayatollah Khomeini, che nel 1979, in seguito a violenti disordini, costrinsero lo Scià alla fuga. Sotto la leadership di Khomeini, fu istituita la repubblica islamica, deponendo il regime filoccidentale e reintroducendo il diritto islamico tradizionale nella sua interpretazione più rigorosa. Le donne furono costrette ad indossare il velo islamico e i loro diritti furono ridimensionati o abrogati, con il prevalere di strutture e logiche patriarcali sia nell’ambito sociale sia in quello privato e familiare; ciononostante, nel corso degli anni, il mondo del lavoro e quello accademico hanno visto un consistente aumento della presenza femminile, che ha superato quella del periodo prerivoluzionario.
Un altro aspetto che mostra come non ci si possa aspettare che l’Iran evolva diventando una copia dell’Occidente è proprio la dinamica della rivoluzione.
Secondo numerosi autori, tra cui Dario Fabbri, essa può essere definita una rivoluzione borghese – in quanto organizzata dagli intellettuali e dalla classe borghese iraniana – che si è tuttavia conclusa con l’ascesa al potere degli ayatollah. La rivoluzione si è dunque legata al clero sciita, che ha assunto posizioni di vertice nel governo, una situazione diametralmente opposta a tutte le rivoluzioni borghesi avvenute in paesi occidentali, dove si è vista una netta divisione tra lo Stato e la Chiesa.
Nel corso di questi decenni il regime non ha saputo rinnovarsi e includere i giovani, questo è ben visibile dalle numerose proteste, dall’assenteismo alle urne e dai risultati delle ultime elezioni che hanno visto vincitore un outsider, ma di nuovo, non bisogna cadere nell’errore di aspettarsi che i cambiamenti che vivrà l’Iran lo porteranno ad assomigliare sempre di più al «mondo occidentale».
Il popolo ebraico convive insieme agli arabi nei territori della Palestina e di tutto il Medio Oriente da migliaia di anni, ma lo Stato di Israele è nato solo nel 1948.
Il neo stato nacque in quello che allora era il protettorato britannico di Palestina, dietro la spinta del movimento sionista supportato da grandi pensatori, da una grande migrazione di ebrei in fuga dalle persecuzioni, provenienti dalla Russia, dall’Europa e dai paesi arabi, e da numerosi attacchi terroristici compiuti dal suo ramo combattente più estremista.
Il 14 maggio del 1948 il governo britannico abbandonò la Palestina e immediatamente venne proclamata la nascita dello Stato di Israele, legittimata della risoluzione ONU 181. Questa divideva il territorio della Palestina tra arabi ed ebrei, con maggior vantaggio per questi ultimi, e non fu accettata dalla popolazione araba. La risposta giunse da parte della Lega araba, un’organizzazione internazionale fondata da Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Iraq, Libano, Siria e Yemen, a cui successivamente si unirono altri Stati, avente lo scopo di salvaguardare i rispettivi interessi. Il giorno successivo la Lega inviò piccoli contingenti militari dagli Stati confinanti per invadere il territorio israeliano, ma vennero sbaragliati dalle forze della neonata nazione ebraica.
Da allora, lo Stato israeliano si è trovato in stato di belligeranza, fronteggiando a più riprese l’Egitto e conquistando la striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania durante la guerra dei sei giorni nel 1967. In anni più recenti, lo Stato di Israele ha inoltre fronteggiato i vari gruppi combattenti anti-israeliani e anti-occidentali che si sono formati in Libano e in Palestina, ad esempio Hezbollah e Hamas. Oltre ai periodi di guerra vera e propria, la belligeranza consiste anche nel fatto che Israele controlla militarmente i territori conquistati.
L’attuale partito al governo, il Likud, in quanto privo della maggioranza in parlamento, è attualmente in coalizione con i partiti della destra radicale, forti sostenitori dell’intervento armato.
L’attuale Primo Ministro Netanyahu è stato in carica dal 1996 al 1999, dal 2009 al 2021 e nuovamente dal 29 dicembre 2022, facendone uno dei leader mondiali in carica da più tempo, in ciò paragonabile a Putin, che è considerato alla stregua di uno zar per la longevità del suo governo. Oltre alla guerra contro i palestinesi, il Primo Ministro Netanyahu deve fronteggiare il malcontento, le critiche e le proteste di una consistente parte della popolazione israeliana in disaccordo con le sue politiche nei confronti dei cittadini israeliani di religione musulmana e degli abitanti dei territori occupati. Inoltre, la guerra risulta necessaria a Netanyahu in quanto lo stato di emergenza gli consente di evitare di far fronte al processo che lo vede accusato di corruzione, frode e abuso di potere.
Nel 1948 gli israeliani controllavano il 78% del territorio, mentre i palestinesi il 22%. Nel 1993, con gli accordi di Oslo, ci fu un tentativo di ristabilire il controllo dell’autorità palestinese sui territori occupati, che divideva in tre zone i territori della Cisgiordania e la Striscia di Gaza, con diversi gradi di autonomia. Oggi, poco più del 10% del territorio è riservato ai palestinesi, e si tratta di «isole» separate tra loro, terre aride e per la maggior parte sprovviste di copertura idrica.
Per i coloni israeliani è stato facile appropriarsi delle terre migliori in virtù di diritti legali, visto che, controllando tutte le infrastrutture, i ministeri e le forze armate, possono promulgare leggi e negare diritti in base al proprio interesse e alla propria necessità. Nel corso degli anni, cinque risoluzioni dell’ONU hanno dichiarato che gli insediamenti israeliani non hanno validità legale e costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale, ma queste risoluzioni sono semplicemente state ignorate dal governo israeliano.
I due grandi nemici, Iran e Israele, si trovano geograficamente separati dai numerosi paesi arabofoni e turcofoni del Medio Oriente, diversi sia rispetto ai persiani sia rispetto agli israeliani, e perlopiù nemici di entrambi, fatte le debite eccezioni.
La maggior parte di questi Stati è di confessione islamica sunnita e per ragioni storico-religiose vedono naturalmente come guida l’Arabia Saudita per quanto riguarda i paesi arabi e la Turchia per i paesi turchi.
Tuttavia, esistono eccezioni, come gli azeri che sono turchi sciiti, gli yemeniti, la maggioranza degli arabi iracheni, hezbollah e, in generale, molti dei paesi o gruppi turchi o arabi sciiti, che generalmente seguono la guida dell’Iran in materia di politica estera.
La differenza tra sciiti e sunniti, che ha una base teologica molto sentita dai credenti, storicamente ha sviluppato anche una matrice politica che ha fatto sì che la Persia abbracciasse lo sciismo anche come forma di allontanamento dal mondo arabo e turco sunnita e che di conseguenza gli altri sciiti, sempre minoranza nel mondo islamico, vi trovassero un alleato.
Un’altra potenziale eccezione a questo schieramento è costituita dagli Accordi di Abramo, una svolta diplomatica favorita dall’iniziativa intrapresa da Donald J. Trump: si tratta di accordi bilaterali in materia di economia, di cooperazione e di relazioni diplomatiche stipulati da Israele con Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrein, Sudan e Israele, particolarmente utili in vista del progressivo disimpegno degli Stati Uniti dal Medio Oriente. Israele è l’unica potenza nucleare e superpotenza militare della regione e, una volta venuto meno il controllo statunitense, gli Stati firmatari troverebbero in Israele un protettore potente a discapito dell’Iran che verrebbe ulteriormente isolato. Probabilmente, anche per questo, l’Iran ha favorito l’attacco di Hamas del 7 ottobre, per dimostrare la vulnerabilità e l’incapacità israeliana nel fornire un’adeguata protezione e per dichiararsi come alternativa alla protezione israeliana.
Inoltre, per l’Iran supportare la causa palestinese è una notevole mossa di immagine, dato che la stragrande maggioranza dei musulmani nel mondo la sostiene apertamente.
Ciò indipendentemente dalla posizione dei propri governi, che in alcuni casi si schierano a favore di Israele a causa degli interessi in gioco o dell’odio e della paura per l’Iran.
In questo contesto, l’attuale governo israeliano, guidato da Benjamin Netanyahu, ha fatto ricorso a una reazione sproporzionata per poter ribadire la propria credibilità e superiorità militare nella regione dopo lo smacco del 7 ottobre.
Se già dai primi giorni di guerra questa tattica del governo israeliano di colpire brutalmente e indiscriminatamente obiettivi militari e civili aveva trovato forti opposizioni sia in Occidente che nei paesi islamici, che nello stesso Israele, l’ultima fase della guerra a cui stiamo assistendo, mostra Israele giocarsi il tutto per tutto con azioni militari e paramilitari estreme, allontanandosi ulteriormente dalle risoluzioni dell’ONU, dalla corte internazionale di giustizia e dai valori che i Paesi occidentali proclamano di perseguire, forte solo del supporto, più o meno tacito, del suo fratello maggiore, gli Stati Uniti.
L’Iran, d’altro canto, si trova in una posizione difficile da sostenere a lungo termine: ha contribuito in larga parte allo scoppio della guerra in corso, finanzia, equipaggia, addestra e fornisce intelligence ai vari gruppi combattenti, ma mantiene, per quanto possibile, un formale distacco.
La repubblica islamica si guarda bene dallo scatenare un conflitto su larga scala nella regione, nonostante i continui attacchi e le provocazioni subite sul proprio territorio per mano di Israele. Anche il bombardamento del primo ottobre attuato dall’Iran su Tel Aviv, per quanto abbia causato alcuni danni, non rappresenta probabilmente il primo di una serie di attacchi e l’intenzione di far cadere l’intera regione in uno stato di guerra, ma un’azione misurata per mostrarsi forte evitando l’escalation.
Tra i vari attacchi e bombardamenti, Israele ha distrutto l’ambasciata iraniana a Damasco, uccidendo un importante generale iraniano, ha eliminato un leader di Hamas a Teheran, Ismail Haniyeh, durante dei negoziati per un cessate il fuoco e recentemente ha invaso il Libano e lo Yemen. Il rischio è che il governo iraniano, in maniera simile a quello di Israele, si senta costretto a mettere in atto una reazione drastica e violenta a queste provocazioni per rassicurare i propri alleati regionali e riaffermare la propria posizione di forza a discapito dei rivali, senza più curarsi di evitare l’escalation in tutta la regione.
Fintanto che la logica della violenza rimarrà l’unica presa in considerazione dai governi, sarà molto difficile fermare l’inasprimento del conflitto in corso e trovare una soluzione accettabile dignitosa alla questione israeliano-palestinese.