Immagine di copertina: © Roberto Monaldo/La Presse
Lo scorso 8 ottobre, il nuovo Ministro della Cultura Alessandro Giuli (insediatosi da più di un mese) ha rivolto un discorso programmatico alla Camera dei Deputati, per spiegare le proprie intenzioni nelle sue nuove vesti governative.
L’intervento è divenuto virale, e in particolare un estratto di due minuti da Giuli stesso introdotto come “parte più teoretica” e intriso di riferimenti lessicali e concettuali che ai più sono risultati oscuri. Questo ha portato molti a parlare di “supercazzola”, da Repubblica a Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, passando per La Stampa e il deputato Amato (M5S).
Il concetto di “supercazzola” (originariamente supercazzora) deve sicuramente la sua fama alla trilogia cinematografica di Amici miei di Monicelli e Loy (1975-85). L’espressione indica una sequenza di parole, esistenti o inventate, unite in modo che il risultato appaia di senso compiuto ma di difficile comprensione all’interlocutore, che in questo modo sarebbe spinto a concordare (per soggezione e principio d’autorità intellettuale).
Sia la costruzione morfologica delle parole inventate con radici e suffissi veri (come nel grammelot teatrale, si pensi al Lonfo di Fosco Maraini), sia più in generale la costruzione sintattica della frase seguono regole reali, in modo che il periodo intero sembri sensato.
È così che proprio in Amici miei la tecnica viene impiegata dal conte Mascetti (Ugo Tognazzi), con le famose espressioni «tarapia tapioco […] come se fosse antani […] prematurata» o «brematurata», e in un’altra scena «con scappellamento […] a destra». Lo scopo è estremamente pratico: quello di abbindolare un vigile e poi un facchino, rispettivamente per evitare una multa e accedere a un albergo.
Dopo questa breve storia del termine “supercazzola”, quella del ministro Giuli era davvero un’operazione di questo genere?
Quasi unica voce a rispondere nettamente di no è stata quella del filosofo ed editore Andrea Colamedici del gruppo di Tlon, che ha espresso un parere articolato non solo sul proprio profilo Instagram, ma anche in un’intervista a Wired (insieme al ricercatore Volpi) e in un articolo su Domani. Innanzitutto, a parte quei due minuti virali, il restante discorso di un’ora era ben più lineare; inoltre, neanche lo spezzone oggetto di scandalo sarebbe poi così ostico; infine, il vero accento andrebbe posto sui contenuti dell’intervento di Giuli – sia nel senso di promesse politiche il cui mantenimento sarà da verificare, sia nel senso di tesi ideologiche corrispondenti alla «destra esoterica» e al «manifesto di una “nuova cultura di destra”» peculiarmente anti-sovranista e anti-nostalgica.
Questo manifesto sarebbe già stato incarnato, secondo Colamedici, dal libro Gramsci è vivo: pubblicato da Giuli lo scorso maggio, sarebbe a suo dire stato ignorato dalla sinistra – e in effetti l’hanno più che altro spulciato a destra (ad esempio sul Foglio) quando c’era da farsi un’idea sul suo conto, appena dopo le dimissioni di Sangiuliano per via del caso Boccia.
Più nello specifico, Colamedici procede su Wired (dato il taglio della testata) ad analizzare il contenuto del discorso nelle sue chiavi più legate alla tecnologia.
La tesi del filosofo di Tlon è molto condivisibile: quella di Giuli non è necessariamente una “supercazzola”. Eppure, per affermarlo non serve spingersi ad analizzare nel merito il contenuto del discorso (per quanto la sussistenza di un reale contenuto sia già da sé incompatibile con la tecnica di Amici miei), né serve descrivere l’intervento come chiaro e semplice.
Un discorso può infatti essere oscuro, senza ricadere nella fattispecie monicelliana (caratterizzata da una composizione apparentemente unitaria e in realtà priva di senso, e atta a uno scopo pragmatico di circuizione). Esiste l’oscurità involontaria, dovuta a fattori esterni spesso burocratici, come nelle cosiddette gride spagnole (editti ufficiali diffusi ad alta voce nell’Italia del Seicento). Queste ultime non avevano, o quantomeno non raggiungevano, uno scopo pratico: erano anzi secondo Manzoni alquanto inefficaci, ed è proprio la loro inefficacia a essere oggetto di ironia in un celebre passaggio dei Promessi sposi.
Esiste poi un’oscurità volontaria ma non risultante da un’assenza di contenuti, quanto piuttosto dall’uso di tecnicismi. Questa può a sua volta bipartirsi a seconda del contesto: se l’interlocutore è un “profano” ignaro di questi termini tecnici, lo scopo è nascondere il reale contenuto della frase (si parla spesso di gatekeeping); se gli interlocutori sono invece dei “pari”, i riferimenti colti e il lessico specialistico possono essere stati inseriti per dimostrare appartenenza agli stessi ambienti, come esche (in contesti meno aulici, si parla di dog-whistle e buzzword, parole che risuonano a un certo uditorio).
In entrambi i casi quest’oscurità volontaria è comunque imparentata alla “supercazzola” (in quanto ostentazione e in un certo senso anche dissimulazione di eventuali lacune), ma ne differisce per composizione delle frasi e scopo pratico.
Del resto, che l’obiettivo di Giuli fosse “ostensorio” è riconosciuto tanto da Colamedici in una diretta su Instagram, quanto dalla linguista Vera Gheno nel podcast Amare parole per Il Post. Anche Gheno fa un breve riferimento finale al merito ideologico delle tesi di Giuli, ma cita soprattutto la questione contestuale (il pubblico non era generalista, ma nemmeno iper-colto) e di scopo.
A questo proposito, Gheno distingue la “supercazzola” da un altro riferimento manzoniano: l’avvocato Azzecca-garbugli, la cui pedante cavillosità e ostentata cultura sono divenute proverbiali. Tuttavia, per quanto venga definito nel romanzo «signor dottor delle cause perse», a differenza delle gride spagnole l’Azzecca-garbugli raggiunge eccome i propri obiettivi – anche se personalistici e parassitari, non certo nell’interesse del cliente.
Non è dunque tanto lo scopo pratico a distinguere l’avvocato dal conte Mascetti, quanto piuttosto la struttura dei suoi discorsi: il primo, infatti, ricorre potenzialmente a frasi di senso compiuto, per quanto oscuro. Un po’ come il latinorum di don Abbondio, un po’ come l’anti-lingua burocratica di Italo Calvino, citata sempre da Gheno.
La linguista, in ogni caso, concede al ministro un’esecuzione retorica penalizzante e a sua volta penalizzata da un probabile raffreddore; tuttavia, pur descrivendo il discorso come facilmente riassumibile, ammette di dover fare una parafrasi almeno della parte teoretica e concorda sulla caratterizzazione monicelliana quantomeno dell’incipit.
Ad avviso di chi scrive, invece, l’oscurità sia pur volontaria del ministro sembra piuttosto volta a confondere i profani e/o segnalarsi ai propri pari. Del resto, è ancora Gheno a sottolineare due tecniche opposte ma con uno scopo simile: sia l’utilizzo del name-dropping, sia la citazione di neologismi senza la menzione del loro coniatore, il filosofo Floridi.
Il name-dropping (citare grandi nomi con nonchalance) di solito serve a ostentare rapporti personali altolocati, anche se qui Giuli fa solo una lista di inventori nostrani che sembra più l’italica sfilza «di poeti, di artisti, di eroi […]», che già aveva tratto in errore Sangiuliano.
Quanto al contesto, Giuli non è certo un divulgatore, ma Gheno nota giustamente che il livello di preparazione dell’uditorio (la Camera) rispecchia bene o male quello degli elettori: al netto dell’impoverimento culturale della classe politica imputato prima a Berlusconi, poi a M5S e Lega e infine a FdI, è malsano ritenere che i nostri rappresentanti debbano essere antropologicamente superiori a noi.
La riflessione che rimane a questo punto è: perché, se non lo era, il discorso di Giuli è stato presentato come “supercazzola”?
Colamedici parla di disonestà intellettuale, di volontaria e pericolosa ignoranza delle tesi dell’avversario da parte del milieu culturale di sinistra, che si potrebbe rivelare un «boomerang» o un «suicidio intellettuale». In sostanza, Sangiuliano nella sua goffaggine risultava comodo al senso di superiorità culturale invalso dai tempi del Berlusconi politico e imprenditore televisivo; con le sue dimissioni e l’arrivo di «un avversario che non si aspettava», la sinistra avrebbe dovuto fare i conti con un ministro veramente interessato alla “egemonia culturale di destra” (una battaglia in realtà notoriamente già propria di Sangiuliano).
Perciò si sarebbe cercato di trasformare mediaticamente Giuli in «un altro Sangiuliano», ad esempio ripescando i video in cui suona una sorta di flauto neopagano nel programma Vitalia (alternando questi riferimenti più triviali a quelli sulla sua militanza giovanile nell’estrema destra).
Colamedici non sbaglia, e coglie l’ambiguità di questa posizione, che è al contempo di superiorità intellettuale-morale e di becero populismo analogo a quello contro i “professoroni” – specie quando l’accusa di “supercazzola” scaturisce da un mero lessico tecnico o forbito. Accade a vecchi video di Carmelo Bene, a Pietro Castellitto, al filosofo e politico Diego Fusaro – senza dover condividere le sue idee, senza ritenerlo un campione di comunicazione, si può contestare la connotazione monicelliana dei suoi interventi.
Più in generale, le responsabilità sono giornalistiche e di noi come utenti: si cerca in Giuli un degno successore di Sangiuliano, come in ogni gaffe di quest’ultimo si cercava la prosecuzione della precedente, come già prima si faceva con l’assessore lombardo Giulio Gallera. Perché così si crea un personaggio tipizzato, che fa comodo tanto alla satira quanto alla retorica spicciola.
E infatti Repubblica e TPI hanno già rincarato con un nuovo discorso di Giuli alla Fiera del Libro di Francoforte. L’importante è che non si tratti degli stessi che poi rimpiangono il linguaggio elevato dei parlamentari della Prima Repubblica.
Leggi anche: Alla fine chi ha vinto i Premi Nobel?