Il 18 settembre 2014, in Scozia, si tenne il referendum che vide il più alto tasso di partecipanti in una votazione popolare nel Regno Unito da più di un secolo. Oltre tre milioni e seicentomila persone si trovarono a rispondere “sì” o “no” compilando una scheda che riportava un’unica domanda: «Should Scotland become an independent country?».
Per i sostenitori del sì, tale quesito rappresentava il culmine di un progetto decennale, che nel 1999 aveva visto la Scozia dotarsi di un proprio Parlamento con poteri limitati. Ora, sempre a detta dei fautori della proposta, si sarebbe potuto realizzare il sogno di un’assemblea nazionale libera dai dettami di Westminster. Questa percezione non fu condivisa dai detrattori, che invece temevano che l’ondata nazionalista avrebbe travolto istituzioni secolari e affondato l’economia scozzese, in larga parte dipendente dal resto del Regno Unito. Quel giorno di metà settembre furono questi ultimi a prevalere, seppure con uno scarto limitato: 55,3% di no, contro il 44,7% di sì.
Alex Salmond, primo ministro scozzese e figura di spicco della campagna per l’indipendenza, reagì alla sconfitta riconoscendo i risultati e dimettendosi sia dalla leadership di partito (il 14 novembre), sia da capo di governo (quattro giorni dopo). A succedergli alla guida dello Scottish national party (Snp) e del governo scozzese fu la sua vice, Nicola Sturgeon, che si concentrò sulle politiche locali, in particolare legate al welfare. Questa nuova strategia, così come il mettere in secondo piano un referendum polarizzante, favorì più grande successo politico per l’SNP, che nelle elezioni generali del maggio 2015 vinse 56 dei 59 seggi della Scozia all’interno del Parlamento inglese.
Il tema dell’indipendenza, però, tornò nuovamente di moda con la Brexit, quando il Regno Unito scelse di lasciare l’Unione europea, nonostante il 62% dei votanti scozzesi fossero contrari. Sulla scia di questa marcata differenza, Sturgeon arguì che il Regno Unito non era più un Paese a cui la Scozia poteva continuare ad appartenere.
Dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, insomma, Sturgeon rilanciò ufficialmente la questione dell’indipendenza, dal momento che alle invariate ragioni dei nazionalisti si erano aggiunti i malcontenti per la Brexit.
Tra gli argomenti a favore di questa causa, i promotori ritennero che, raggiunta l’indipendenza, si sarebbe avuta una Scozia sovrana e pertanto libera di tracciare autonomamente il proprio corso rispetto a Londra, vista come inefficiente e lontana. Inoltre, gli indipendentisti sottolinearono le diversità culturali tra la Scozia e il resto del Regno Unito, così come il fatto che gli scozzesi pagassero una quota proporzionalmente maggiore di tasse rispetto alla media statale. A inasprire queste osservazioni sul lato economico ci fu la questione delle riserve di gas naturali, presenti nel nord della Scozia. Viste da Londra come una risorsa per tutto il Regno Unito, gli indipendentisti ritennero che dovessero essere gestite dalla Scozia, unicamente a proprio beneficio.
Alla richiesta dell’autorizzazione di un nuovo referendum, l’allora primo ministro inglese Boris Johnson replicò che un voto popolare si sarebbe potuto tenere “una volta ogni generazione.” La governatrice scozzese, in risposta, affermò che il referendum si sarebbe tenuto il 19 ottobre 2023, nonostante non avesse ricevuto il consenso di Londra. Il progetto fu quindi stroncato dalla Corte suprema, che confermò la prerogativa di Westminster di autorizzare la votazione. Il 28 marzo dello stesso anno Sturgeon si dimise dalla guida del Paese, lasciando intendere che fosse giunto il momento di una pausa per il bene della Scozia e per il proprio benessere personale. Le sue dimissioni arrivarono dopo un lungo periodo di polemiche, alimentate dalle leggi progressiste sull’identità di genere da lei promosse. Sturgeon ha in ogni caso negato che tale questione abbia influenzato la decisione presa.
Prima di lasciare la propria posizione, affermò che le vicine elezioni generali del 2024 sarebbero state viste come un “referendum de facto.” Posizione, questa, che i successivi vertici del partito abbandonarono, sostenendo che in caso di vittoria si sarebbero limitati a iniziare negoziazioni con Londra. Tali progetti furono messi in discussione quando i risultati delle elezioni videro il crollo dell’Snp, che perse 39 seggi nel Parlamento inglese, rimanendo con 9. Tuttavia, sebbene nell’assemblea scozzese il partito sia rimasto e rimanga tuttora quello di maggioranza, questo risultato ha messo in dubbio il sostegno popolare non solo verso il referendum, ma anche verso l’Snp in sé.
L’Snp dovrà dunque tracciare una nuova strategia, così come aveva fatto prima delle elezioni generali del 2015.
Per affrontare questa sfida, il partito dovrà prestare particolare attenzione a una popolazione che sta subendo un progressivo impoverimento e a un sistema di welfare con sempre meno fondi. In un contesto come quello attuale, difficilmente si può vedere l’indipendenza come una strada fattibile, perché richiederebbe un lungo periodo di austerità su un popolo già provato. Tuttavia, la situazione scozzese è caratterizzata da problemi di difficile risoluzione, mentre l’indipendenza si offre alla classe politica come una questione identitaria che può facilmente far guadagnare voti.
Questa strategia, sebbene possa portare a un successo elettorale, presenta rischi significativi, come dimostrato dagli strascichi socio-politici della Brexit, che fu almeno in parte ispirata proprio dal referendum scozzese. Se da una parte la promessa in campagna elettorale di un referendum indipendentista può portare a un maggiore successo politico, dall’altra richiede il pagamento di un prezzo. Nel caso scozzese, il prezzo da pagare fu relativamente contenuto a causa del fallimento del referendum indipendentista. I Conservatori speravano di ottenere un risultato simile con la votazione per la Brexit, che invece si concluse con esito positivo e colse impreparato un intero apparato politico.
Rimane, dunque, una domanda cruciale: dopo dieci anni, è il caso che in Scozia si parli ancora di indipendenza?
Articolo di Nicolò Bianconi