Del: 1 Dicembre 2024 Di: Clara Molinari Commenti: 0
Giurato numero 2, tra imparzialità e coscienza

«In ogni processo penale, l’accusato avrà il diritto ad un procedimento pronto e pubblico, con una giuria imparziale di persone dello Stato e del distretto in cui il delitto sia stato commesso […].» VI Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. 

Quando pensiamo al processo penale americano la prima cosa che visualizziamo è la giuria popolare. 12 uomini, cittadini, giurati chiamati a servire il Paese assolvendo una delle funzioni fondanti del sistema giuridico statunitense: giudicare i fatti oggetto del processo ed emettere un verdetto sulla responsabilità dell’imputato. Con il suo ultimo film, uscito nelle sale italiane il 14 novembre, Clint Eastwood ha deciso di puntare la telecamera su uno di questi 12 uomini: sul Giurato numero 2. 

Georgia. Justin Kemp (interpretato da Nicholas Hoult), sposato e in procinto di diventare padre, viene scelto per prendere parte alla giuria in un processo per omicidio. Una chiamata scomoda, perché le sue priorità in quel momento sono altre, ma a detta della Corte i giurati perfetti sono proprio quelli che avrebbero preferito non essere scelti, che hanno altri interessi per la testa, chiara manifestazione di imparzialità; quindi Justin rientra perfettamente nel profilo.

Il processo inizia, ma disvela subito un tragico equivoco: non è stato l’imputato a uccidere la fidanzata, ma Justin, investendola accidentalmente. Era notte e pioveva, quindi sul momento non se ne era accorto; pensava di aver investito un cervo, precipitato poi nel dirupo accanto alla strada, ma in quel dirupo è stato ritrovato il corpo di una donna. Ora, dalla comoda sedia di giurato, Justin realizza tutto, lucidamente. Come si comporta la psiche umana quando è chiamata a giudicare i fatti di un uomo la cui condanna è in grado di decretare la propria “assoluzione”?

Eastwood (seguendo la sceneggiatura di Jonathan Abrams) prende le mosse da questo fatto per sviluppare una storia che ruota intorno al concetto di imparzialità, indagato in ogni sua sfumatura. La giuria popolare viene messa a nudo, osservata dallo sguardo critico di una telecamera che si fa spazio nella stanza dove i Twelve Angry Men devono confrontarsi per raggiungere un verdetto all’unanimità. Tutte le prove raccolte riconducono all’imputato e il voto dei giurati sembra quindi scontato, ma Justin si muove in direzione contraria: incapace di costituirsi ma non abbastanza spregiudicato da esprimere un voto di colpevolezza, si lancia nel tentativo di insinuare negli altri membri della giuria il ragionevole dubbio sulla responsabilità dell’imputato.

Justin, giurato parziale per definizione, la falla nel sistema, si scontra però con il fare sbrigativo o prevenuto di alcuni degli altri soggetti chiamati a esprimere il verdetto. L’assonanza tra disinteresse e imparzialità, presentata all’inizio del film come un dato quasi certo, incontestato, viene messa in discussione, abilmente decostruita tra le pareti di una stanza. 

Eastwood ha portato sul grande schermo concetti già indagati in altri suoi film, rivisitati e qui dotati di una profondità nuova. Attraverso la narrazione di un sistema di giustizia che si scopre imperfetto, il regista accompagna ancora una volta lo spettatore a interrogarsi su quale sia la linea di confine che separa verità e giustizia, legge e morale. Dalle struggenti scene di Million Dollar Baby (2004), che indagano la forza dirompente della coscienza individuale, ai dialoghi di Mystic River (2003), dai quali traspare una verità che non potrà mai essere completamente raggiunta dalla giustizia, fino ad arrivare a Giurato numero 2, dove domande già sentite, ma mai scontate o retoriche, si rincorrono su uno schermo che non fa sconti per nessuno. 

Seguendo questo fil rouge, il regista lascia che lo spettatore si interroghi, senza però dare risposte, solo spunti e suggestioni. «Questo sistema, per quanto imperfetto, è la nostra migliore possibilità di trovare una giustizia» è la frase che più volte ritorna nel corso del film, pronunciata quasi come un mantra da chi si muove all’interno di quel sistema. Ma fino a che punto si è disposti a tollerare che la propria verità e parzialità possano influire sul tentativo di “trovare una giustizia”? Un interrogativo che percorre tutto il film e che si ricompone nella suggestiva immagine finale che evoca la condanna di ciascuno di noi a fare i conti con la propria coscienza. 

Clara Molinari
Studentessa di giurisprudenza, scrivo per dare ascolto ai miei pensieri e farli dialogare con l’esterno. Cinema e lettura sono le mie fonti di emozioni e conoscenza; la curiosità è ciò che lega il tutto.

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