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Un individuo dai capelli tinti di fucsia, stereotipicamente legati all’ideologia politica progressista e woke, fugge dalla propria metropoli, ormai dominata da un’abnorme bandiera a stelle e strisce e da un altrettanto abnorme cartello di X, l’ex-Twitter trasformato da Elon Musk.
L’individuo espatria in campagna, nella cosiddetta America profonda: lì una coppia di hillibilly, stereotipici campagnoli (lui l’emblema del redneck di destra, lei vestita a fiori come una tradwife casalinga) decide di compiere il viaggio inverso, trasferendosi in città.
Si tratta di una striscia in quattro vignette pubblicata a metà novembre da Stonetoss, un disegnatore di destra descritto come «cripto-nazista» e recentemente aiutato proprio da Musk in un caso d’identità violata.
La striscia fa riferimento al cosiddetto riallineamento dell’elettorato esplicitatosi nelle elezioni dello scorso 5 novembre, in cui diversi segmenti demografici storicamente più connotati a sinistra hanno votato per Trump: allo stesso modo, nelle vignette l’ambiente urbano smette di rappresentare l’alveo dei progressisti e (con un paradosso umoristico) persino l’America rurale di J.D. Vance diviene un approdo per loro più sicuro.
Tant’è, che i due ambienti sono colorati rispettivamente ormai di blu e di verde chiaro, le tinte della destra “dura” e della sinistra liberal nell’iconografia del political compass, a dispetto dei colori di Democratici e Repubblicani.
Se del riallineamento ci sarà da discutere a lungo, interessa qui più che altro la prima delle quattro vignette di Stonetoss: il progressista che fugge da una città ormai di destra.
Dopo la vittoria di Trump in delle elezioni estremamente polarizzate, vissute (e strategicamente gestite in campagna elettorale) con toni apocalittici, c’è chi ha in effetti deciso di lasciare gli Stati Uniti: la testata The Wrap ha rivelato che la presentatrice Ellen DeGeneres si è trasferita con sua moglie nell’«Inghilterra rurale» (!), senza alcuna intenzione di fare ritorno in America, avendo anche deciso di vendere la propria vecchia casa.
L’attrice Eva Longoria ha raccontato a Marie Claire che, dopo l’esacerbazione del clima sociale in America dovuto alla pandemia prima ancora che al ritorno di Trump, lei e la famiglia vivono de facto fra Spagna e Messico.
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C’è persino una compagnia che a novembre ha offerto diversi pacchetti di crociere per «fuggire dalla realtà» trumpiana, fino anche alle elezioni di medio mandato del 2026 o persino «saltando in avanti» fino alle presidenziali del 2028, come in un film.
Si è parlato anche di un picco d’interesse nell’espatrio da parte di segmenti più ampi della popolazione, anche se spesso partendo da comunicati delle stesse agenzie di viaggio (ergo meno obiettivi).
Allo stesso modo, nonostante il gran parlare di un esodo di massa verso il Canada dopo la vittoria di Trump nel 2016, a pochi mesi dall’inizio della nuova presidenza le giornaliste Grinberg e Coleman avevano ridimensionato questo espatrio a un pio desiderio, dati alla mano.
La vera apertura da parte del premier canadese Trudeau è stata verso i rifugiati politici, all’indomani del cosiddetto Muslim ban di Trump nel 2017.
Sono dunque i veri perseguitati del nostro millennio (come chi fuggiva dalla Germania negli anni Trenta) a venire scimmiottati dagli Americani benestanti che dicono di voler espatriare, a fronte di una situazione politica sì critica ma oggettivamente imparagonabile a quelle da cui fuggono i richiedenti asilo?
In effetti a pianificare di lasciare gli Stati Uniti, già prima del 5 novembre, sono principalmente le famiglie più ricche; allo stesso modo, The Post Internazionale sottolinea come «in pochi» possano permettersi la crociera di cui sopra; la stessa Longoria ammette di essere «privilegiata […] La maggior parte degli Americani non è così fortunata».
Oppure è reale il disagio esistenziale di alcune persone, appartenenti a minoranze che saranno plausibilmente ancora più marginalizzate, e spinge a voler lasciare la propria casa, o a chiudere gli occhi sperando di riaprirli e scoprire che è stato un brutto sogno, o di ritrovarsi nel 2028?
Oggi alcuni utenti di Instagram deridono le parole di una studentessa che ammetteva davanti a Kamala Harris di aver paura per la propria vita, apparentemente in vista di una rielezione di Trump – in realtà si tratta di un video del 2019, risalente alla campagna di Harris per le presidenziali del 2020, e relativo alle sparatorie nelle scuole. In ogni caso, anche qualche esponente democratico quest’anno ha ricondiviso la clip, decontestualizzandola.
Così come questi utenti si chiedono sarcasticamente se la studentessa sia effettivamente morta, dopo la vittoria di Trump, le dichiarazioni di espatrio delle celebrità vengono sottoposte ad analogo scrutinio: mentre il creator Richard Han (di cui avevamo già parlato) insiste su video potenzialmente ironici, è stata la stessa destra italiana a fare del sarcasmo in più occasioni.
Il vicepremier Salvini, in coda a un diverbio con Calenda il 28 novembre, ha detto che «aspettiamo a Roma per il Giubileo» i VIP che avevano promesso di trasferirsi all’estero.
Il presidente del Senato La Russa invece, già il 9 novembre a un evento dell’europartito meloniano ECR, ha ironizzato dicendo di voler «vedere i biglietti dell’aereo […] del treno […] vedere in quali Paesi emigrano», spingendosi poi ad accostare Taylor Swift e Hamas – una mossa retorica diffusa, che ignora la compatibilità fra la difesa dei diritti delle persone palestinesi e il rigetto del conservatorismo islamista radicale.
Ironia a parte, che si tratti di parodie di cattivo gusto dei rifugiati o di effettivo apocalittismo esistenziale, i progetti di fuga dall’America possono essere considerati in buona parte velleitari, se non egoistici.
Lo scopo sarebbe quello di chiudere gli occhi davanti all’evidenza, di voltarsi dall’altra parte rispetto al proprio Paese, in parte di disconoscere l’esito del meccanismo elettorale.
«Not my president» è una frase che è stata rivolta nei confronti di Trump sin dal 2017; in realtà campioni antidemocratici del rinnegamento dell’avversario sono stati i trumpiani nel 2020-2021 con Biden, e questa specifica frase non è sempre accostata ai Democratici.
Nel 2021 l’account indiano The Prayag Tiwari scherzava con quest’espressione (un rifiuto non politico, bensì dovuto alla nazionalità straniera – anche se sono seguiti tweet più politici); lo scorso ottobre, analogamente, il connazionale Roshan Rai ha negato che Trump o Harris potessero essere il suo presidente, in quanto lui indiano.
Pochi giorni la vittoria di Trump, a novembre, è comparso anche a Roma uno striscione, che alla suddetta frase faceva seguire: «Grazie ar cazzo sei de Ostia», nel noto font neofascista, di fianco a un Hitler stilizzato e sopra a preesistenti graffiti pro-Forza Nuova.
Se però a dire «not my president» è un americano, senza ironia?
Qualora il disconoscimento sia verso l’istituzione (o provenga da un’istituzione, come il carabiniere che a gennaio ha detto che Mattarella «non è il mio presidente») la cosa si fa più grave; se si tratta di un disconoscimento politico è più legittimo (non si può sempre avere un «presidente di tutti», à la Biden, Macron o Schlein), ma pur sempre velleitario se non nocivo, anche più dell’espatrio.
Con maggior senso della misura, è forse più realistico lasciare un social network anziché una nazione – disconoscere Elon Musk al posto di Trump.
Come la metropoli della striscia di Stonetoss, Twitter è passato dalla gestione Dorsey (stereotipicamente legata agli intellettuali progressisti, ma forse è più senno di poi che altro: il vero nodo fu il contrasto alla disinformazione fra pandemia e assalto al Campidoglio) alla gestione Musk, che ha riabilitato diversi account prima sospesi, Trump incluso.
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Così ha accelerato il declino anche economico della piattaforma, già prima delle elezioni di novembre, che hanno dato un’ulteriore spinta: fanno sicuramente sorridere i titoli su Elio e Piero Pelù che lasciano l’ex-Twitter, più impattante l’addio del Guardian, secondo cui le elezioni hanno confermato che X sia ormai «tossico».
C’è chi ha rilevato qualche criticità in questa scelta: secondo Alessandro Masala, il probabile obiettivo di essere la prima fra tante testate che abbandonino X potrebbe non essere raggiunto – la mossa confermerebbe in tal caso l’immagine di una sinistra (se non censoria e chiusa al dialogo) quantomeno seclusa nei propri ambienti, aventiniana nei suoi fallimenti.
Anche il quotidiano francese Libération critica la scelta del Guardian, che sarebbe invece dovuto restare su X per «presidiarlo», invece di lasciarlo del tutto a Musk in maniera in fin dei conti ignava (si ricordino le polemiche per i mancati endorsement su altre testate).
Più superficialmente, l’ex-comunista Rizzo a dicembre ha risposto all’addio a X della Federazione Europea dei Giornalisti con un riduttivo e riduzionista paragone di Musk a Zuckerberg e Google.
C’è però anche chi ha dato ragione a Guardian e colleghi: il giornalista Leonardo Bianchi ha annunciato l’abbandono di una piattaforma «gestita da un oligarca che si è messo al servizio di un’amministrazione autoritaria», ergo un social «inutilizzabile» (citando ragioni pratiche quali l’algoritmo e la penalizzazione dei link esterni).
Così si è mosso anche Matteo Bordone, che prevede uno spostamento su Instagram e TikTok, più giustificato rispetto a quel “presidio” di X invocato da Libération, un atteggiamento a suo avviso «moralista, cattocomunista» e fine a se stesso.
Se per Masala lo scopo è sia quello dell’«isolamento» di X che di «velocizzare il declino» della piattaforma, in che senso ciò va inteso? L’obiettivo ultimo è quello di evidenziare il fallimento imprenditoriale di Musk al punto che questi venga cacciato, “liberando” Twitter, o più radicalmente dare il colpo di grazia a un irrecuperabile X?
Nel secondo caso, sarà di fondamentale importanza capire quale social possa fungere da alternativa (e che tipo di alternativa: un identico surrogato, o una piattaforma che risponda diversamente alle stesse esigenze?). Sia Bordone che Bianchi, ma come pure Marino, enfatizzano la crescita di BlueSky, nato da Twitter stesso; Threads, di Zuckerberg, è ancora lontano dal rimpiazzare X; anche su Mastodon c’è scetticismo.
C’è forse da discutere a monte sulla difficoltà a emergere oggi per un nuovo social: si pensi ai flop di BeReal e ClubHouse, che avevano puntato rispettivamente su una supposta veridicità salubre (rispetto agli altri social, vetrine distorte e idealizzanti delle nostre vite) e sull’esclusività discendente dalla necessità di inviti personali per accedervi.
Quello che si può dire già oggi è che quello che spinge a fuggire (o, per altri, dovrebbe far rimanere) sia su X che negli USA è un comune senso di accerchiamento da parte di una società sempre più intollerante: se non ne è emblematico l’annuncio di espatrio della figlia transgender e disconosciuta di Elon Musk, lo è la prima vignetta di Stonetoss, col protagonista in fuga da una città dominata insieme dall’enorme bandiera americana e dal logo di X.