Del: 23 Gennaio 2025 Di: Gabriele Benizio Scotti Commenti: 0

Indieclopedia è il titolo di una serie di articoli che usciranno a cadenza non regolare sul panorama indie rock, per scoprirne i movimenti, le origini e i protagonisti di questo grosso sottogenere del rock che ha rappresentato il pilastro della musica rock alternativa degli anni 80 e 90. In questo primo episodio parliamo di un sottogenere molto interessante: lo slowcore.

Se da una parte negli anni 90 c’erano i Nirvana con il loro leader Kurt Cobain che riportavano in auge il mito della rockstar anni 70, dall’altra c’erano band come i Weezer che ne rappresentavano quasi una parodia: con uno stile umoristico e tagliente il mito della rockstar veniva sostituito da un Rivers Cuomo che confessava di aver fatto l’amore ben mille volte con la donna che ama, nella sua testa. Tuttavia nella musica dei Weezer, sebbene ci sia un che di parodistico rimangono sempre quegli strascichi dell’immaginario hard rock, anche solo nella semplice musica (la band preferita di Rivers Cuomo erano i Kiss).

Anche generi come lo shoegaze sembrano portarsi ancora appresso quella sensualità e vitalità come retaggio del rock nei suoi anni d’oro e sembrano non capaci a rinunciarvi del tutto.

Tuttavia, c’è un movimento musicale piuttosto particolare, rimasto per lo più nei bassifondi musicali in cui il rock sembra quasi essere sparito, sebbene le sue radici affondino in maniera piuttosto evidente lì.

Band seminali per il genere come Galaxie 500 e American Music Club affondano chiaramente le loro radici nel “rock” inteso nel suo senso più ampio. Sono evidenti le radici Folk rock dei secondi e le radici post-punk/rock psichedeliche dei primi, eppure solo qualche anno dopo, band come i Red House Painter, gli Idaho, i Drunk, i Radar Brothers, i Low, gli Acetone e i Codeine faranno dischi nei quali tutta quella forza vitale presente nel rock è morta.

 Quello che rimane sono delle atmosfere narcotizzanti come sentiamo nello slowcore sognante e minimale dei Low, o delle atmosfere funeree come nello slowcore rumoroso e disperato degli Idaho.

In queste band non c’è più il mito della rockstar, questo mito ormai è morto e sepolto, ma nemmeno c’è il mito del poeta maledetto: lo slowcore presenta testi essenziali, di impatto e completamente scevri di retorica.

Dai Low che propongono immagini criptiche di natura spirituale, a Mark Kozelek che nei Red House Painter parla in maniera struggente e al contempo estremamente diretta della sua relazione finita e dei suoi tormenti interiori riguardo all’età che avanza, ai Codeine che parlano attraverso testi composti di immagini forti e di impatto.

Ora qual è la storia dello slowcore? C’è chi come Andrew Earles individua l’inizio di questo movimento nei Galaxie 500, band post-punk di fine anni 80 in cui primi elementi che diventeranno cardine del genere cominciano a intravedersi. Anche gli American Music Club a volte vengono identificati come tali. Sempre Andrew Earle, nel suo Gimmie Indie Rock, trova improprio il termine slowcore affibiato a loro, senza però sminuire l’influenza che avranno.

Trovare una origine univoca al nome del genere è tuttavia difficile, ma la prima attestazione citata nel dizionario di Oxford è in un libro di Chuck Eddy chiamato Stairway to Hell: The 500 Best Heavy Metal Albums in the Universe.

Matt Kadane dei Bedhead dirà che in realtà il termine era denigratorio in quanto la lentezza non era nell’essenza di ciò che volevano fare.

 Se queste band hanno gettato le basi la prima band puramente slowcore, sono probabilmente i Codeine fondati a New York. Un articolo di Robert Rusbam chiamato Slowcore: A Brief timeline la definisce la band slowcore più estrema, e questo è piuttosto singolare tenendo conto che sono probabilmente i primi a fare veramente slowcore. I Codeine come già sopramenzionato faranno parte di quel tipo di slowcore più sporco e distorto che propone delle atmosfere intrise di disperazione.

I Red House Painters, seguendo la scia dei Galaxie 500, aprirono la strada a uno slowcore più minimale ed etereo, che raggiunse la sua forma più compiuta con i Low. Come avviene per ogni sottogenere, è importante ricordare che i confini dello slowcore non sono sempre netti: alcune band abbracciano diversi stili, includendo anche elementi slowcore. Un esempio sono i Seam.

Band come gli Slint, invece, vengono talvolta considerate proto-slowcore per alcuni brani contenuti in Spiderland. Lo slowcore, inoltre, non si limita a contaminazioni con il folk e il dream pop, ma si intreccia anche con sottogeneri dell’indie pop, come il chamber pop. Questo è evidente in band come i Midnight Choir o nei più noti Carissa’s Wierd.

Anche gruppi come gli Acetone e i Drunk meritano una menzione, grazie a uno slowcore fortemente influenzato dal country. Inaspettatamente, lo slowcore si trova anche in territori meno prevedibili: data l’influenza degli Slint, è possibile vederlo accostato al post-hardcore, con band come i Karate e i Lowercase spesso etichettate come slowcore.Il genere presenta anche commistioni con il rock psichedelico o lo space rock, come nel caso dei Red Star Theory e dei Duster. Infine, esistono influenze più creative con il post-rock, evidenti in band come i Movietone e gli American Analog Set.

Un aspetto significativo, soprattutto negli anni ‘90, è che, a differenza del grunge, lo slowcore non ha una collocazione geografica specifica né etichette di riferimento, rendendolo un fenomeno più diffuso e frammentato.

Dane Wareham dirà così della sua musica «We were not trying to make people dance, we were not trying to ‘rock’ – we were trying to make things that were beautiful». Immerwahr dei Codeine, parlando del suo stile, affermò « It was a reaction to that Eddie Vedder style of singing. What suited these songs, my own lived experience, was something smaller, something anti-epic».

Lo slowcore spoglia il rock di tutti i suoi elementi essenziali, lasciandone solo uno scheletro. Questo scheletro, da un lato, ne rivela tutte le fragilità; dall’altro, esplora nuove possibilità. Anzi, recupera e sviluppa intuizioni già presenti nel post-punk più oscuro, da cui i Galaxie 500 trassero ispirazione. La sfida è quella di fare rock senza seguire davvero le convenzioni del rock: creare sonorità che accentuino l’introspezione, che diano vita a atmosfere intrise di malinconia e rassegnazione, lasciando nell’ascoltatore un senso di vuoto.

Non c’è l’intento di intrattenere o divertire, né paura di ferire l’ascoltatore; piuttosto, la musica diventa un mezzo per evocare ricordi dolorosi, come una relazione perduta o la sensazione che tutto possa essere privo di senso.

Se quello che viene naturale pensare è « niente che i Joy division non abbiano fatto prima» l’invito è di notare come nello slowcore, per citare le parole di Dane, non c’è alcun intento di fare rock, di far ballare le persone. Se she lost control propone una danza disperata e agonizzante, Medicine Bottle dei Red House Painters vi invita a rimanere immobili a disperarvi pensando a quello che ormai non potete più avere; se Love will tear us apart conserva una vitalità macabra, Inside Out dei Duster è un’anestesia totale prima di un intervento a cuore aperto.

Non c’è più niente che rimandi alla voglia di rock puro e crudo, non c’è più la voglia di adeguarsi a un modello di rockstar edonista e libertina, non c’è più l’intenzione di far divertire chi ascolta.

 C’è solo disperazione, malinconia e rimpianti. Eppure, ci sono chitarre, basso, batterie, rimandi musicali ad artisti facenti parte quella cultura da cui lo slowcore si distacca. Il rock in un certo senso c’è, in un certo senso lo slowcore è ancora rock. Impossibile non rintracciare l’influenza di un artista come Neil Young in alcuni pezzi, così come dei Velvet Underground.  Solo che ne è una versione ormai radicalmente distaccata, dopo aver fatto tesoro dei suoi insegnamenti li ha tutti rifiutati. E chi ha bisogno di musica triste ringrazia.

BIBLIOGRAFIA

Michael Azerrad, Our Band Could Be Your Life: Scenes from the American Indie Underground 1981-1991, 2001.

Andrew Earles, Gimme Indie Rock: 500 Essential American Underground Rock Albums 1981-1996, 2014.

Stevie Chick, Our music didn’t build. We were anti-catharsis’: the glacial pleasures of slowcore, 2023.

Robert Rubsam, Slowcore: A Brief Timeline, 2017.

Chuck Eddy, Stairway to Hell: The 500 Best Heavy Metal Albums in the Universe, 1991.

Gabriele Benizio Scotti
Studente di filosofia, appassionato di musica, cinema, videogiochi e letteratura. Mi piace scrivere di queste tematiche e approfondirle il più possibile.

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