
Nei decenni del loro regime, Bashir al Assad e Hafez al Assad, rispettivamente figlio e padre, hanno rafforzato il sistema di carcerazione siriano, usato duramente in risposta a ribellioni e insubordinazioni. In questa fitta rete di detenzione sono passate centinaia di migliaia di persone, giudicate senza avvocati in processi sommari della durata di pochi minuti, torturate e detenute in condizioni degradanti e disumane. Le prigioni sono sempre state inaccessibili a giornalisti e organizzazioni non governative. Amnesty International, grazie all’aiuto di esperti grafici e sopravvissuti alle prigioni, aveva creato una riproduzione digitale, visiva e sonora, del carcere di Sednaya, detto il «mattatoio», il quale divenne simbolo delle violenze e sevizie del regime.
Con l’avanzata delle forze militari anti-assadiste (che hanno portato al rovesciamento del regime l’8 dicembre 2024) le prigioni sono state di volta in volta aperte e liberate, permettendo l’ingresso ai soccorritori, ai familiari per cercare i propri cari, ai giornalisti per condividere gli orrori della prigionia.
Il carcere tristemente più noto è quello, già citato, di Sednaya, città situata poco fuori Damasco, a breve distanza dal confine siriano con il Libano.
Considerato come lo specchio dell’ex regime, il carcere di Sednaya è particolarmente rappresentativo delle atrocità messe in atto soprattutto ai danni dei dissidenti politici del governo dal 2011 in poi (anno dell’inizio della guerra civile).
Le violazioni dei diritti umani erano all’ordine del giorno: Al Jazeera spiega che i detenuti non potevano parlare, venivano frustati, privati del sonno e sottoposti ad elettroshock. Le donne venivano spogliate, bendate e stuprate sistematicamente. Migliaia di persone sono state uccise con impiccagioni di massa. Secondo Amnesty International vicino alla prigione era stato costruito anche un forno crematorio per disfarsi dei cadaveri.
Apertesi le porte, le famiglie si sono accalcate con la speranza di ritrovare i propri familiari, di cui spesso non avevano notizie da anni.
Le ricerche sono proseguite per giorni, soprattutto nei sotterranei, chiamati «blocco rosso», per scovare le celle nascoste.
Numerose testate giornalistiche hanno raccolto testimonianze e raccontato storie di alcuni sopravvissuti, molti erano senza documenti, tanti altri non ricordavano più nulla a causa dei traumi subiti.
Il Guardian racconta di Samer: l’uomo ricorda il suono gioioso del pane che cadeva sul pavimento fuori dalle celle, il rumore stava a significare che avrebbe avuto abbastanza cibo per sopravvivere un altro giorno.
Daniele Raineri sul Post parla di Hassan, un padre alla ricerca del figlio catturato a 17 anni in seguito ad una manifestazione, dice di essere stato arrestato «soltanto perché cantava che il presidente doveva smettere di fare il presidente. A voi in Italia, in Francia, negli altri paesi: a voi succede questa cosa?».
Al Jazeera spiega cosa succedeva ai corpi dopo le esecuzioni secondo la testimonianza di Serriya: quando un detenuto moriva, il suo corpo veniva generalmente lasciato all’interno della cella con gli atri prigionieri per due o cinque giorni, prima di essere portato in una «stanza del sale».
I cadaveri rimanevano lì fino a quando non se ne accumulavano abbastanza per riempire un camion. La tappa successiva era un ospedale militare, dove venivano rilasciati certificati di morte, spesso dichiarando un attacco cardiaco come causa del decesso, prima delle sepolture di massa. Le stanze del sale erano progettate per «preservare i corpi, contenere il fetore e proteggere le guardie e il personale della prigione da batteri e infezioni».
La fine del regime ha portato alla nascita di un governo ad interim, guidato da Muhammad al Bashir, nominato grazie ad un accordo tra le forze che hanno liberato il paese. I prossimi mesi saranno cruciali per osservare l’evoluzione del futuro della Siria, con l’auspicio che né questi luoghi liberati né altri possano più essere teatro di simili atrocità e violazioni di diritti umani fondamentali.