Del: 22 Aprile 2025 Di: Alexia Ioana Branzea Commenti: 0
Soddisfazione nella mancanza, Lacan con la professoressa Campo al primo incontro di Pensare con Freud

«La sola colpa è aver ceduto sul proprio desiderio».

Questa enigmatica affermazione è il cuore pulsante del ciclo di seminari organizzato da Pensare con Freud, un’associazione studentesca del nostro ateneo. Tale ciclo di incontri è stato inaugurato venerdì 11 aprile con un intervento della Professoressa Alessandra Campo, docente presso l’Università degli Studi di Urbino.

A partire dal titolo stesso del ciclo d’incontri, che altro non è che una citazione da Seminario VII. L’etica della psicoanalisi di Jacques Lacan, la professoressa Campo ha articolato un lungo e interessante intervento, toccando alcune delle questioni più centrali della teoria psicoanalitica e in particolare del pensiero lacaniano. 

Il punto di partenza, in apparenza semplice, è in realtà già pieno di implicazioni: cosa vuol dire «desiderio»? E, soprattutto, cosa significa «non cedere» sul proprio?

Nella psicoanalisi lacaniana, questa tematica assume una portata tanto vertiginosa quanto complessa.

«Desiderio», in effetti, è un composto delle parole latine de sidus, sideris: letteralmente è una «lontananza dalle stelle». Un qualcosa, quindi, che ci orienta come una costellazione lontana, irraggiungibile, ma costantemente presente. Tant’è che «desiderio» non è mai sinonimo di un mero bisogno e non può nemmeno essere ricondotto a una semplice domanda: il desiderio, infatti, non riguarda il colmare qualcosa che manca, né si esaurisce nel soddisfacimento di un oggetto, bensì è ciò che muove il soggetto, operando spesso in maniera incomprensibile, ma assolutamente ineluttabile e inesauribile.

È proprio in questo suo carattere strutturalmente non saturabile che si situa il nodo della soddisfazione, su cui la professoressa ha deciso di focalizzare il suo discorso.

«Nel nostro tempo dire di essere soddisfatti sembra quasi un tabù» – esordisce la docente.

Il termine stesso, dal latino satisfacere, implica un compimento, una pienezza, che oggi, in un mondo che ci vuole costantemente inappagati e anelanti a qualcosa di più, appare completamente fuori luogo. Lacan, consapevole di ciò, non definisce la soddisfazione, con la sua Etica della psicoanalisi, come il raggiungimento di obiettivi, benessere, fama o successi definiti di alcun tipo, ma la definisce come jouissance, ossia un godimento che si prova quando si incontra ciò che viene chiamato il reale.

Ma che cos’è il reale? 

Per comprenderlo, a questo punto, è utile tracciare la mappa di quelli che sono i tre registri fondamentali dell’esperienza psichica di Lacan.

Il primo è il registro dell’immaginario, sviluppato a partire dal cosiddetto «Stadio dello specchio»: qui, vedendo il proprio riflesso, il soggetto si riconosce come un’unità, un Moi, da tradursi non tanto con un Ioquanto con un Me. L’unità che si è riconosciuta in questo stadio, infatti, è alienante e illusoria, in quanto è una costruzione narcisistica sì coerente e unitaria, ma idealizzata ed esterna a sé, una maschera, dunque, che non coincide con ciò che il soggetto è realmente.

Il secondo registro è quello del simbolico: qui, il soggetto si riconosce non più solo come un Moi idealizzato, ma come un autentico Je, un Io in grado di fare ricorso alla parola per relazionarsi all’altro ed esprimere ciò che pare essere l’oggetto del proprio desiderio.

Nel fare ciò, tuttavia, il soggetto scopre che neanche quella simbolica del Je è la sua reale dimensione ultima, perché il linguaggio risulta destinato a mancare sempre di un significato ultimo, motivo per cui, in tal senso, il simbolico è il luogo dove il soggetto si fa soggetto barrato il cui desiderio è un’incolmabile mancanza.

Terzo e ultimo registro, infine, è proprio quello del realequi, tutto sfugge ad ogni tentativo di rappresentazione conscia e per questo è assolutamente da non confondersi con la realtà come viene percepita, che si colloca invece sul livello dell’immaginario.

Si manifesta non più attraverso le parole, che si collocano a livello del simbolicoma in maniera disturbante e paradossale, attraverso eventi traumatici o incontri inaspettati, portando all’estremo lo stadio di «soggetto barrato».

È proprio a livello del reale, che, ineluttabilmente, «ritorna sempre allo stesso posto», che si gioca la possibilità di una vera soddisfazione: solo accettando questa parte opaca e per certi versi incomprensibile di sé, infatti, si può parlare di una soddisfazione autentica. 

È su questo punto che la professoressa Campo ha introdotto una distinzione fondamentale tra piacere e soddisfazione.

Se il primo può essere inteso come il raggiungimento di una gratificazione momentanea, la seconda ha tutt’altra natura. La jouissance di cui parla Lacan, infatti, è un godimento che eccede il piacere stesso, che può avere a che fare paradossalmente con il dolore, la ripetizione, la coazione, ma che testimonia qualcosa di più profondo: il passaggio del soggetto che attraversa il proprio desiderio, incontrando la propria verità più singolare a livello inconscio.

Qui il soggetto, confrontandosi con i limiti della propria posizione simbolica, per soddisfarsi, deve decidere non di sottrarsi, ma di restare fedele a ciò che lo muove; è proprio questa fedeltà, infatti, che permette al soggetto di attraversare il «soggetto barrato»abbandonando la ricerca ossessiva di un qualche illusorio oggetto del proprio desiderio, ma adattandosi alla mancanza che lo abita in maniera costitutiva.

A questo proposito, Lacan fa appello alla tragedia greca, in particolare all’Antigone sofoclea, figura paradigmatica di chi non arretra rispetto al proprio desiderio, anche a costo della vita stessa.

Proprio per questo motivo, sebbene possa sicuramente essere vista come una grandissima eroina e paladina della giustizia, Lacan non fa di lei un modello da imitare. Scegliendo il suicidio in maniera stoica, infatti, Antigone rimane bloccata in quello che la terminologia lacaniana definisce il «fantasma»: una sorta di cornice cinematografica che ogni soggetto si costruisce, spesso senza saperlo, per dare una forma al proprio desiderio sul livello dell’immaginario e proteggersi, al contempo, dal confronto diretto con ciò che sfugge e turba davvero a livello del reale.

Antigone, infatti, con il suo gesto estremo e senza compromessi, resta caparbiamente fedele al proprio desiderio, rimanendo incatenata alle pretese del Je e ancora molto dipendente dalle maschere del Moi, senza riuscire a confrontarsi con il reale ed attraversare il fantasma.

Altra figura tragica, meno conosciuta, che la professoressa Campo ha deciso di evocare accanto ad Antigone, è quella di Sygne de Coufontaine di Paul Claudel.

Una giustapposizione sicuramente molto ricercata, perché se Antigone rappresenta l’inflessibilità assoluta, la fedeltà cieca e incrollabile al proprio desiderio, anche a costo della morte, Sygne invece incarna una postura tragica diversa, più sfumata, forse, si potrebbe dire, più umana.

Sygne, infatti, pur non cedendo al proprio desiderio, non lo trasforma in un idolo da adorare ad ogni costo, riuscendo quindi ad attraversare la «cornice del fantasma» dove Antigone invece era rimasta imprigionata. Nel dramma di Claudel, infatti, Sygne accetta il sacrificio del proprio desiderio, senza però così abdicare alla propria soggettività, a ciò che davvero la muove: proprio in questo senso, dunque, Sygne non si lascia catturare dal fantasma, ma abbandona le illusioni del Moi e le pretese del Je, misurandosi con il reale nella sua forma più cruda di contraddizione, compromesso e perdita.

Muovendoci verso una conclusione, alla luce di quanto sostenuto finora, l’idea di partenza di non cedere sul proprio desiderio può essere riletta non come una fedeltà cieca e testarda, bensì come una capacità di abitare il proprio desiderio nella sua naturale struttura della mancanza, senza volerla colmare, anche quando ciò implica rinunciare agli ideali fantasmagorici che ci si è creati.

In chiusura, la professoressa Campo ha finito il suo intervento con un collegamento molto suggestivo e profondo con il concetto nietzschiano di «Amor fati»: non si tratta di rassegnazione, men che meno di rinuncia al desiderio, bensì di una forma di adesione attiva, singolare, a ciò che siamo realmente nella nostra irriducibile differenza.

In un’epoca in cui siamo continuamente chiamati a «realizzarci», a «trovare la nostra strada», la psicoanalisi lacaniana ci ricorda che il desiderio non è mai un progetto da costruire, ma un enigma da ascoltare dal dì dentro, anche quando non lo comprendiamo del tutto, anche quando non possiamo cambiarlo, anche e soprattutto quando non siamo in grado di saturarlo.

In fondo, dunque, amare il proprio destino non significa altro che ascoltare il reale del nostro desiderio, anche là dove fa male e, forse, la sola colpa di cui ci possiamo rimproverare è il non aver avuto coraggio di farlo.

Alexia Ioana Branzea
Un'anima in tempesta, vado errando tra gli studi umanistico-linguistici, le arti marziali e le escursioni in montagna. In particolare, amo dilettarmi nella composizione di prose e poesie in diverse lingue ed opinare sulle tematiche che più mi stanno a cuore.

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