Ci parli degli inizi della sua carriera e in particolare dell’esperienza in Lotta Continua.
Vi posso dire innanzitutto che ho frequentato moltissimo le aule di Festa del Perdono, ma ahimè non da studente. Mi sono iscritto a lettere con indirizzo classico, nel ‘73 quando ho finito il liceo al Berchet. Poi però Adriano Sofri mi “precettò” chiedendomi di andare a Roma a seguire quella che si chiamava “commissione nazionale scuola” e temo di aver dato in tutto sei esami! Non mi sono mai laureato,e quindi, non seguite il mio esempio! Ma certamente l’esperienza – prima di movimento poi anche di redazione – nel quotidiano di Lotta Continua è rimasta per me qualche cosa che mi ha dato più di quanto non mi abbia tolto. Mi ha etichettato, per cui ancora adesso a vengo visto come “un ex di Lotta Continua”. Ma gli serbo della gratitudine. Il quotidiano di Lotta Continua ha avuto un ruolo fondamentale di insegnamento per due ragioni: la prima è che ci imponeva di concepire il giornale come strumento della trasformazione della realtà, e non come mera professione; e poi perché, essendosi l’organizzazione di Lotta Continua sciolta molto presto, noi che facevamo il giornale ci siamo trovati liberi da vincoli di disciplina di partito. Avevamo realizzato molte innovazioni sia nella grafica che nella scelta degli argomenti, nell’introduzione in un giornale politico di tematiche invece più legate alla sessualità, alla crisi esistenziale del mondo giovanile. E’ stata una grande lezione professionale. Se io sono diventato un giornalista fortunato lo devo anche a quelle innovazioni di linguaggio che ho appreso in quella scuola.
Ma voglio fare un altro cenno alla Statale. Mi infastidiva già a quei tempi dentro all’università il prevalere di un’impostazione dogmatico ideologica nei gruppi dirigenti di quel movimento studentesco, che erano inevitabilmente i figli dell’alta borghesia milanese. Il movimento si dichiarava Marxista – leninista ed esaltava personalità come Lenin, Stalin, Mao Tse Tung che davvero stridevano con la realtà italiana. Quando andavi a cercare un rapporto con gli oppressi, gli sfruttati, i senza casa, quell’ideologia risultava già un ferro vecchio. Mancava negli studenti uno spirito critico. In realtà sembrava veramente che si scimmiottassero le guardie rosse cinesi, salvo poi la sera tornare in belle case confortevoli.
Com’è proseguita poi la sua carriera terminata l’esperienza di Lotta Continua?
Il mio ingresso nel giornalismo “non militante” fu sofferto. Noi avevamo condotto negli ultimi anni (’77-’79) una battaglia strenua dentro al movimento contro la degenerazione violenta e terroristica degli autonomi e del partito armato del terrorismo di sinistra, delle Brigate Rosse e di Prima Linea. Quei metodi armati per i quali le persone venivano trasformate in simboli e la vita umana veniva considerata un valore irrilevante e poteva essere cancellata o ferita, erano qualcosa che ci sembrava tradire profondamente le ragioni per le quali c’eravamo impegnati. Ero stanco di quella battaglia dentro al giornale, con il giornale. Quindi nel ’79 “diedi le dimissioni”, per così dire, e feci una certa fatica a passare al cosiddetto “giornalismo borghese”. Mi sembrò quasi un tradimento l’idea che il giornalismo potesse essere trasformato in un mestiere. Andai prima in un giornale di Genova che si chiamava Il Lavoro. Poi ho fatto Radio Popolare, ho scritto anche un po’ sul Manifesto, Dopo sono stato all’Espresso per parecchi anni. Intrapresi questo mestiere senza mai dimenticare da dove avevo cominciato, mantenendo lo stesso atteggiamento critico. L’etichetta del “ragazzo di Lotta Continua” e del giornalista non del tutto affidabile per l’establishment mi è rimasta appiccicata con anche degli evidenti svantaggi. Ho pure conosciuto e frequentato il potere. Non faccio il furbo che finge di essere rimasto fuori dai suoi meccanismi. E lo frequento tutt’ora, ma con un piede dentro e uno fuori.
Come si fa a entrare nella professione giornalistica rimanendo sempre coerenti con se stessi, e senza dover per forza scrivere ciò che vuole il padrone?
Credo che il rimanere coerenti sia un vantaggio, e solo in apparenza ti fa pagare dei prezzi. Vale per tutti i mestieri. Serve una forte passione, una vocazione, alcuni temi che ti appassionano a prescindere dalla busta paga e del percorso professionale, cose su cui pensi valga la pena spendere una vita intera: ecco, se tu entri nel mestiere del giornalista con una vocazione di questo tipo hai una marcia in più. Non c’è niente di peggio che restare indifferenti e piegarsi alla volontà del direttore. Diventi semplicemente uno che si fermerà ai gradini bassi della carriera, un esecutore.
Sempre a proposito della professione. Lei pensa che la maggior specializzazione dei giornalisti sia positivo?
E’ una risposta complessa. Da un lato c’è il sistema italiano, in particolare il sistema delle professioni in Italia che è scandaloso. Ci sono corporazioni chiuse, compresa quella giornalistica che ha un albo che secondo me andrebbe abolito, perché serve solo a difendere chi c’è già dentro da chi vorrebbe entrarci, (ma lo scandalo è ancora più grande tra i notai, tra gli architetti, gli ingegneri, gli avvocati). C’è proprio un sistema illiberale che peggiora la qualità di tutti questi servizi, li invecchia, toglie spirito di concorrenza e quindi di innovazione. Ed è un ostacolo anche alla competizione internazionale. Per quanto riguarda in particolare i giornalisti, non c’è dubbio che per crearsi dell’offerta ci voglia specializzazione. Che ad esempio per fare bene il giornalista economico bisogna saper leggere i bilanci Ma non basta. Serve anche che quel giornalista possa sentirsi libero di denunciare i vizi del capitalismo italiano senza che questo gli appaia impossibile, perché le proprietà dei giornali sono di quelle stesse persone di cui lui deve denunciare i vizi. Noi viviamo un continuo conflitto d’interessi. Secondo me la passione viene prima della specializzazione. Quindi non pretendo affatto di indicare il mio percorso come esemplare, l’ho definito io stesso come molto fortunato. Però credo che quel rischio sia qualcosa per cui valga la pena di vivere. E’ l’impostazione critica che bisogna conservare, il grande strumento che abbiamo.
Crede ancora nella politica?
Sì. Voi avete la sfortuna di affacciarvi in un tempo di guerra. Questa è una circostanza che richiede saggezza. Ci si deve domandare: come si sta in un tempo di guerra? come ci si comporta in questioni fondamentali come il regolare i flussi migratori, la difesa, la prevenzione della minaccia terroristica? come facciamo ad impedire che questo tempo di guerra si traduca anche in un tempo di povertà e di precarietà? Tutto questo impone nuova politica. E la necessità di ripensare completamente le nostre categorie di interpretazione della realtà. Quelle che adoperavamo noi sono ferri vecchi. O si fa questo passo di fantasia, oppure l’illusione di resistere facendoci gli affari nostri e chiudendoci semplicemente nella difesa della nostra quotidianità, verrà spazzata via.
Secondo lei la democrazia è esportabile, come vorrebbero gli USA? Non corre il rischio, questa parola, di ridursi a una scatola vuota?
Certamente, come tutte le parole, anche il termine “democrazia” corre questo rischio. Però noi europei abbiamo una storia che fa sì che noi possiamo riempire di significato sia la parola pace, che la parola democrazia. In maniera diversa dagli americani. Lo dico con grande rispetto per l’America, che è un paese democratico, ma che è un paese che con la guerra ha avuto un rapporto molto diverso da quello che ha avuto l’Europa. Non ha conosciuto la guerra “in casa”, non ha conosciuto le macerie. L’Europa sì. Questo induce talvolta gli americani a guardarci con disprezzo, dicendo che l’Europa è invecchiata e non ha più il coraggio di combattere per difendere i valori fondamentali della democrazia. Invece io credo che sia saggezza e non viltà trarre insegnamento dalla memoria della catastrofe che ci accaduta. Sapere che la guerra ci può sfuggire di mano. Che non è vero che la si possa lanciare e poi governare pensando di poterne poi controllare gli esiti. E lo stesso discorso vale per la democrazia. Credo che ci sia una bella differenza rispetto al sano contagio democratico che si è verificato sul territorio europeo e culminato con l’allargamento ad est dell’Unione, per cui paesi che non erano democratici oggi lo sono diventati pacificamente. Ma anche la Palestina: io credo che la vicinanza di uno stato democratico come Israele, con le cui politiche si può fortemente dissentire – ma che resta uno stato democratico – abbia esercitato un influsso positivo sulla Palestina. E le elezioni che si sono appena svolte lo dimostrano. Dubito invece fortemente che la democrazia si possa esportare con le armi.
A proposito di Israele. Nota, da parte di certa sinistra estrema, un certo antiebraismo?
Sicuramente c’è una crisi di rapporti tra il mondo ebraico e la sinistra che è particolarmente dolorosa. Dentro alle tragedie del 900 la sinistra si è battuta contro l’antisemitismo e ha affermato sempre una concezione laica dello stato, in cui gli ebrei potessero sentirsi a casa loro con i cittadini non ebrei. Oggi invece c’è qualcosa di più che non la critica diffusa alle politiche dei governi israeliani. Si fa fatica a comprendere il perché debba esistere uno Stato ebraico. Si fa fatica a definire che cosa sia l’ebraismo. Come fatto culturale c’è il mistero delle identità: sentirsi cittadini di un luogo ma contemporaneamente con un forte legame con un altro luogo. Pensate alla mia esperienza personale: io sono nato a Beirut da genitori che erano nati in Palestina prima che si chiamasse Israele e ho gran parte della famiglia che vive in Israele. In un certo senso potrei dire che sono cittadino della sponda nord e della sponda sud del Mediterraneo allo stesso tempo. Questo io lo vivo come una ricchezza, ma per altri può essere un’ambiguità. Ma siccome queste ambiguità è dentro a ciascuno di noi, sarebbe bene imparare tutti a viverle come una ricchezza e non pretendere dagli altri una sorta di disciplina, per cui se tu sei di sinistra non devi voler bene a Israele, e se tu sei di sinistra e ebreo sei sospetto, perché c’è il sospetto che in cuor tuo tu voglia bene più a Israele che alla sinistra.
a cura di Chiara Asta e Beniamino Musto