Del: 10 Marzo 2006 Di: Redazione Commenti: 1

Esternalizzare. Privatizzare. Vendere. Sono tre parole che negli ultimi anni si sentono pronunciare spesso a Milano. Tre parole che però hanno risultati affini: il pubblico che arretra e il privato che avanza. Sono soprattutto le esigenze di far cassa in tempi di vacche magrissime, a sollecitare la svendita del proprio patrimonio e al taglio dei servizi. Come non rendercene conto in un periodo come questo, dove tutti fanno promesse che necessitano di molto denaro, ma nessuno se la sente di aumentare le tasse? I soldi da qualche parte devono pure uscire. Quindi si fanno tagli alla spesa, quasi come un proclama ideologico. “Riduzione degli sprechi”, li chiama qualcuno, “tagli ai servizi e nuove forme di sfruttamento del lavoro” altri. E se i tagli non bastano, ecco mettere sul mercato i propri immobili. Quando poi i palazzi da vendere saranno finiti e ci troveremo nuovamente senza danaro, chissà cosa si prevede di vendere (considerando anche che Milano non ha molte spiagge da mettere sul mercato e che l’idroscalo non sembra molto appetibile). Ma torniamo alle tre parole da cui siamo partiti. Punto primo: esternalizzare. Significa che si affida parte di un servizio pubblico a dei privati, al fine di ridurre i costi e migliore l’efficienza del servizio stesso. E’ quello che è accaduto ad esempio per molti aspetti del lavoro bibliotecario, come andremo vedendo in seguito. Punto secondo: privatizzare. Cioè trasformare un intero settore pubblico in un’azienda privata. Questo non significa necessariamente che si venda l’azienda a terzi. In moltissimi casi il nuovo soggetto che nasce dalle ceneri di quello pubblico è ancora saldamente nelle mani comunali. E’ il caso, come vedremo, della Milano Ristorazione, che gestisce le mense delle scuole cittadine. Altra tendenza, di cui però non ci occuperemo in queste righe, è quella che riguarda l’ambito culturale, dove si privatizza ricorrendo alla trasformazione in fondazioni. Come è accaduto con il Teatro Alla Scala, con un pezzo delle scuole civiche, e come si sarebbe voluto fare con i musei cittadini.

E veniamo al punto terzo: vendere. La parola parla da sé. Al centro di questa svendita c’è stato fino a non molto tempo fa l’intero patrimonio immobiliare comunale, pronto ad essere messo sul mercato che sarebbe dovuta avvenire attraverso una cartolarizzazione. Un’ipotesi che ora si è arenata. Nell’intervista fatta a un impiegato comunale del demanio capirete meglio i termini di questa vicenda

Ma che cosa cambia in un servizio che non è più solamente pubblico? E perché il Comune sceglie di privatizzare se poi è sempre lui a controllare l’azienda? Che concorrenza è far passare un servizio da un monopolio a un altro? In questo nostro dossier non pretendiamo di trovare risposte definitive, ma vogliamo semplicemente cercare di raccontare lo stato di alcuni servizi pubblici. Lo abbiamo fatto raccontando tre realtà paradigmatiche – le biblioteche, la refezione scolastica (e gli asili nido), e il demanio pubblico – attraverso il racconto di alcune persone iscritte alla Cgil, che lavorano come impiegati in questi settori.

BIBLIOTECHE

 

 

Gianni Pizzi lavora presso la biblioteca di Palazzo Sormani.

 

Quali sono i servizi che negli anni sono passati dalla gestione pubblica a quella privata?

Sono attualmente in mano a privati diversi parti del lavoro bibliotecario. Uno dei servizi più importanti ad essere stato esternalizzato è stato il recupero on-line dei cataloghi cartacei (dal ’90 si è deciso di sdoppiare il sistema di catalogazione in cartaceo e telematico, ISBN). Altri servizi svolti da esterni sono, nel caso della Sormani, quello della catalogazione dei fondi speciali, della rilegatura dei periodici e della loro microfilmatura, il restauro dei libri, e per quanto riguarda le biblioteche rionali, il servizio di custodia delle sale lettura aperte nelle ore serali.

Ci sono aspetti del lavoro bibliotecario che funzionano meglio affidati a privati?

Dal mio punto di vista il servizio nella sua globalità deve rimanere sempre in mano pubblica. Certo, esistono poi ambiti così specifici che rendono praticamente necessario l’appaltare ad altri il lavoro. Si prenda ad esempio il caso del restauro dei libri, dove sono fondamentali precise competenze tecniche. Però, in generale, continuare a cedere continuamente ad altri pezzi di mansioni specifiche non può far altro che regredire il sistema.

In che modo?

Mi riferisco per esempio agli inquadramenti contrattuali. C’è una forte disparità tra i dipendenti pubblici e i lavoratori delle cooperative, che non godono delle stesse tutele dei primi. E che inoltre non possono accedere ai percorsi formativi. Così si ostacola il miglioramento delle competenze di ogni lavoratore. C’è da aggiungere che ogni anno le finanziarie bloccano le assunzioni, il che impedisce il naturale ricambio del personale, che talvolta si trova sovraccarico di lavoro. Prendiamo ad esempio il caso della biblioteca rionale di Villa Litta ad Affori, che verrà riaperta, ampliata di quasi il doppio, tra qualche mese. Fino agli anni ’80 lì ci lavoravano 13 persone; oggi, nel doppio degli spazi, ce ne lavorano 8.

Cedendo pian piano competenze all’esterno si arriverà a privatizzare l’intero servizio bibliotecario?

La tendenza di questi anni, in vari settori di competenza comunale, è in sostanza la seguente: il Comune, trascurandolo, lascia che un certo servizio peggiori. In questo modo si mostra come esso non possa più essere sostenuto interamente dal pubblico, iniziando così a cedere competenze ai privati, se non a privatizzarlo del tutto. Le biblioteche per fortuna non corrono ancora questo rischio, o almeno non entro breve.

CARTOLARIZZAZIONI

 

 

Antonio Piazzi lavora presso il settore Demanio e Patrimonio del Comune di Milano, negli uffici di via Larga.

Signor Piazzi, cos’è una cartolarizzazione?

 

Si tratta della vendita del patrimonio immobiliare comunale, che avviene procedendo per fasi. Per prima cosa il Comune crea un’apposita società, costituita dall’intero valore patrimoniale stimato. Tale patrimonio non viene però indicato sommando il valore in danaro di ogni singolo immobile, ma è considerato nel suo complesso e valutato suddividendolo in “cartelle”, vale a dire in azioni che costituiscono questa società. Per effettuare la valutazione dell’intero patrimonio il Comune ha incaricato una commissione mista composta da banche e società immobiliari.

Quali edifici sarebbero stati messi in vendita?

Tutto ciò che è di proprietà comunale, dai palazzi di edilizia residenziale, agli stessi edifici adibiti ad uffici, come quello di via Larga.

In che modo sarebbe avvenuta la vendita e chi avrebbe potuto acquistare gli immobili?

Chi compra, nella realtà, non sta acquistando questo o quell’immobile, ma azioni (o cartelle) di questa società appositamente creata. La vendita di queste azioni sarebbe avvenuta in grossi blocchi di cartelle. Considerando le cifre che ci sono in ballo, questo permette solo a soggetti che dispongono di ingenti quantità di liquidi – cioè le banche – di essere dei potenziali acquirenti. Le cartelle poi sarebbero state poi eventualmente rivendute alle società immobiliari, che di fatto avrebbero rivenduto gli immobili a chi avesse voluto acquistare il singolo appartamento o ufficio.

Come mai il progetto si è arenato?

Il motivo principale è che sono venute alla luce delle grosse contraddizioni in merito all’intera operazione. Noi dipendenti comunali ci siamo battuti molto proprio per farle emergere, sia scendendo in piazza a manifestare, sia sensibilizzando i consiglieri comunali di maggioranza e di opposizione, che molto spesso erano all’oscuro dei termini con cui veniva condotta la faccenda. Il Comune, a mio avviso, è stato volutamente poco chiaro nel gestire l’operazione. Molti passaggi tecnici, con le conseguenze che avrebbero provocato, erano evidenti solo a noi impiegati comunali che siamo in un quotidiano contatto con la gestione del demanio pubblico.

Quali sono le contraddizioni che avete evidenziato? E come avrebbe dovuto procedere l’operazione?

Il progetto prevedeva due fasi: una prima, in cui si sarebbe dovuto vendere tutto il patrimonio immediatamente acquistabile in grossi blocchi di cartelle; e una seconda, in cui si sarebbe dovuta creare un’altra azienda speciale dove sarebbe confluito il patrimonio non immediatamente vendibile. Le contraddizioni insite in quest’operazione sono molte. Ad esempio: senza un patrimonio pubblico da amministrare, che cosa sarebbero andati a fare le decine di impiegati comunali che si occupano della gestione dello stesso? E con che criterio sarebbero state rivendute le case dai grossi acquirenti? Senza considerare poi il fatto che centinaia di persone sarebbero state costrette a dover acquistare per forza la propria abitazione, nella quale si trovano in affitto ad un prezzo calmierato, oppure avrebbero dovuto trovarsi un’altra casa. Un dramma per molti pensionati. Ma una bella grana da pelare anche per i molti inquilini eccellenti antichi amici di chi amministrava la città durante la prima Repubblica (e non solo) che occupano case comunali di pregio. I politici hanno iniziato a porre dei veti incrociati al punto tale che persino l’allora assessore al Demanio, Giancarlo Pagliarini, tra i primi fautori delle cartolarizzazioni, ha iniziato a nutrire dubbi. Dubbi che sono aumentati quando poi si è quantificato che per il danaro incassato sarebbe stato minore rispetto a quello previsto.

SCUOLE E MENSE

 

 

Tatiana Cazzaniga è un’educatrice per l’infanzia nelle scuole del Comune.

Iniziamo col parlare della mensa scolastica. Quando e come è stato privatizzato il servizio?

 

L’esternalizzazione per quanto riguarda la mense scolastiche è partita nel 2000, ma di fatto il servizio è in mano ancora al Comune. Quest’ultimo, infatti, ha costituito una società apposita, la “Milano Ristorazione S.p.a.”, di cui è proprietario al 99 %. Il restante 1% è invece in mano a un’altra azienda, la So.ge.mi. di cui però, sempre il Comune, possiede il 50%. In altri termini il Comune è proprietario del 99,97% di chi gestisce il servizio.

Se le cose stanno così, che cosa è cambiato allora?

E’ cambiato innanzitutto che nonostante il fatto che il Comune sia di fatto il proprietario, la società ha un proprio consiglio d’amministrazione e un proprio nuovo quadro dirigente, i quali ovviamente hanno i loro costi. Insomma, ha dovuto assumere nuovi dirigenti per riuscire a gestire (in peggio) un servizio che è sempre stato gestito dal personale interno, senza la necessità di dover mantenere per forza un altro c.d.a. Oltre al fatto che sono cambiate (in peggio) alcune tutele delle lavoratrici e le tipologie di contratti applicati.

Il servizio offerto ha avuto cambiamenti?

Sì, ma è cambiato in peggio. In primo luogo la qualità dei pasti è peggiorata. Parallelamente il costo per il singolo pasto è aumentato, come ha dimostrato in Consiglio Comunale, dati alla mano, il capogruppo DS Emanuele Fiano. E poi c’è il netto peggioramento delle condizioni in cui le addette alle mense devono svolgere il proprio lavoro. Economicamente, ad esempio, hanno minori possibilità di avanzamento di carriera e premi di produzione più bassi rispetto agli altri dipendenti comunali. Poi ci sono altre problematiche legate agli orari di lavoro e ai permessi, che non vengono rilasciati con facilità. Per quanto riguarda le nuove assunte, invece, viene loro offerto un part-time ciclico verticale (3-4 ore al giorno) che è sì a tempo indeterminato, ma che garantisce uno stipendio da fame (4/500 euro mensili).

Per quanto riguarda gli asili nido, cosa si è esternalizzato di questo servizio?

Si è affiancato al personale pubblico quello proveniente da cooperative sociali. Questo si traduce nella cessione ai privati della gestione di alcune strutture pubbliche. Oppure il Comune costruisce nuove strutture appositamente per darle in gestione ai privati.

Che tipo di differenze si riscontrano tra i lavoratori?

Al personale assunto dalle cooperative non viene applicato il contratto degli enti locali, che all’articolo 30 e 31 parla proprio del lavoro delle educatrici, tra cui un orario di lavoro di 6 ore. Alle educatrici delle cooperative devono lavorare 7 ore, e questo non è un particolare indifferente sapendo quanto è faticoso lavorare con dei bambini piccoli. Lavorano di più e guadagnano meno rispetto alle educatrici assunte direttamente dal Comune. Inoltre i nuovi contratti non prevedono la formazione obbligatoria, che prevederebbe colloqui con i genitori e incontri di confronto con gli altri educatori. E in molti casi è la prima cosa a dover essere tagliata per mancanza di fondi. D’altronde il Comune indice delle gare d’appalto al massimo ribasso, aggiudicandole a chi garantisce il costo minore per il servizio. E se il costo è minore, vuol dire che da qualche parte si dovrà pur tagliare.

A cura di Beniamino Musto

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