Del: 5 Ottobre 2006 Di: Redazione Commenti: 0
L’autolesionismo, quando è meglio punire il proprio corpo che affrontare la realtà

Quando qualcuno ci vuol far male, lo individuiamo come nemico e ci affrettiamo a mettere le distanze: tanto per cominciare, quelle che coprono lo spazio di un braccio allungato e la mano, fino all’estremità dell’indice che gli puntiamo contro. A volte l’indice lo dobbiamo puntare verso noi: quando siamo “tagliatori” o “self-injured”. Quando siamo autolesionisti.

Le mani a grattare la cute, il rasoio a scarnificare, la sigaretta spenta sul braccio, litri di alcol pompati in corpo, droghe come mentine, 4 etti di carbonara ingurgitati, seguiti da un budino per dessert: questi sono solo alcuni dei comportamenti catalogati come autolesionisti. Il comune denominatore è la deliberata produzione di una minorazione su se stessi. «L’espressione di una rabbia interna» – spiega la dottoressa Eugenia Pelanda, presidente dell’Associazione Area G scuola di psicoterapia attiva nell’ambito dell’intervento del disagio psichico giovanile – «farsi del male e vivere attraverso il dolore fisico per sentirsi vivi e per allontanare il dolore psichico: un’angoscia incontenibile». Questo disagio riguarda soprattutto il mondo dei giovani; la manifestazione più estrema, quella suicida, è la terza causa di morte per i ragazzi tra i 15 e i 24 anni. Un gran numero di autolesionisti trova sfogo nei forum; ecco gli stralci di un post lasciato da una ragazza: «Parte un dolore dentro…è un altro di quei momenti in cui stai perdendo il controllo, in cui la sofferenza non può essere ascoltata…La sfera del reale inizia a sbiadire: non sei più Sara, non sei più bella, non sei più intelligente, non sei più nulla. Il vuoto che senti intorno è insopportabilmente pieno di rabbia…Come sopportare una simile impotenza? Una lametta. Improvvisamente prendi in mano la situazione…Una volta finito, il tuo segreto è coperto dai vestiti…torni a rimetterti quella maschera che piace a tutti». Che differenza c’è, dunque, tra chi mostra i segni dell’autolesione e chi, come Sara, li nasconde? «È un diverso modo di comunicare» – spiega la dottoressa Pelanda – «chi mostra apertamente è più aggressivo nei confronti dell’esterno; in chi nasconde c’è chiusura verso l’esterno. Nel primo caso c’è lo scopo di spaventare, preoccupare, aggredire». Del mostrare il sangue pubblicamente ne sa qualcosa Genesis P-Orridge, leader della industrial rock band Throbbing Gristle, che nel concerto di Londra del 1976 si trafisse con aghi ipodermici, ingurgitò sangue e birra, vomitò e leccò il suo vomito; salvo poi lasciare il palco pallido come un cencio. «Nelle star del rock si insegue un ideale di onnipotenza» – secondo la dottoressa Pelanda – «è una modalità negativa per rafforzare l’autostima e il narcisismo, solo per andare poi ad autodistruggersi». Anche l’arte utilizza la teatralizzazione dell’atto fisico: una sorta di purificazione mediata dal dolore, con cui riscoprire l’essenza stessa della vita. A suffragare l’idea che ci sia un nesso, tra il farsi del male e la catarsi, c’è l’origine etimologica della parola castigare che in latino significava infatti “rendere puro”. Non dimentichiamo che le ferite si infettano e c’è ben poco di puro in una lesione che si incancrenisce o in una corsa al pronto soccorso e il rischio di non vedere mai più un’alba. Di automutilazioni fa uso l’artista Vito Acconci, morsi autoinflitti in tutto il corpo sono il soggetto della sua performance Trademarks, documentata attraverso l’uso di telecamere e macchine fotografiche, mentre Hermann Nitsch nella sua Azione n°45 si sottopone di fronte al pubblico a una sorta di autoflagellazione. Bisogna dire, tuttavia, che per larga parte del pubblico, il massimo digeribile del nefasto si ferma ancora alla natura morta.

E voi siete autolesionisti? Dipende. Se avete trovato il mio articolo noioso e malgrado ciò l’avete letto, siete autolesionisti. Oppure semplicemente mi volete un sacco di bene.

Diana Garrisi

Quando l’autolesionismo è…

mitologico. Le Amazzoni, donne guerriere della mitologia greca, per meglio usare l’arco, si tagliavano il seno destro, a-mazos significa infatti “senza seno”.

salvifico. Aron Ralston, un rocciatore americano di 27 anni, nel 2003 rimase intrappolato da un masso di 360 chili e, perdute le speranze dell’arrivo dei soccorsi, il quinto giorno decise di tagliarsi il braccio per liberarsi.

illegale. Rischia fino a tre anni di reclusione il salariato che si ferisce o mutila per procurarsi denaro attraverso la riscossione di premi assicurativi, indennizzi, pensioni. L’autolesione è una pratica ricorrente tra i soldati che si automutilano per evitare l’arruolamento o per essere rimpatriati.

tarocca. Chi non ha mai comprato gli scherzi carnevaleschi tipo il dito bendato insanguinato che nasconde una molla, oppure le finte lesioni in lattice con tanto di osso in vista. I negozianti dicono: «Si vendono bene tutto l’anno».

canino. E’ il caso di alcune razze di cani da lavoro affetti da stereotipia, una patologia di natura ansiosa che ha tra i suoi sintomi la rotazione dell’animale su se stesso con il tentativo di mordersi. Sembra che tra le storie comuni ai cani affetti da questa patologia ci sia un periodo di addestramento per un determinato compito (attacco, guardia, obbedienza), oppure di una restrizione dell’esercizio fisico (cani legati alla catena dopo un periodo di libertà).

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