Del: 10 Novembre 2006 Di: Redazione Commenti: 0

A tre anni di distanza da 21 Grammi torna Alejandro Gonzales Iñarritu, con una pellicola, Babel che ha ottenuto nientemeno che il premio per la regia all’ultimo film di Cannes. Una pellicola a un tempo più semplice e complessa delle precedenti.
Più semplice perché meno giocata sulle strutture ad incastri spazio-temporali e sulle rotture della continuità narrativa di Amores Perros e 21Grammi. Ma più complessa per il più ampio sforzo produttivo, dovuto all’articolazione del film in tre storie che si svolgono addirittura in tre continenti diversi: una sulla frontiera rovente tra Messico e Usa, una in Marocco e l’ultima addirittura in Giappone. Tre plot legati da una serie di nessi diegetici che emergono lentamente nel corso del film. Assistiamo allora al tentato omicidio di una donna americana giunta in vacanza in Marroco con il marito, e contemporaneamente, alla sorte poco invidiabile della badante messicana cui ha affidato i pargoli ed ancora al cupo dolore di una ragazzina giapponese sordomuta che ha di recente perso la madre.
L’obbiettivo di Iñarritu (e del suo fedele sceneggiatore Guillermo Arringa) era probabilmente quello di raccontare l’incomunicabilità nell’epoca della globalizzazione – di qui il titolo Babel. Incomunicabilità tra stati e culture: l’America claustrofiliaca che erige muri per tenere lontani i milioni di migranti messicani in cerca di lavoro, le difficoltà di comunicazione tra il mondo occidentale e quello arabo; ma anche tra esseri umani: tra marito e moglie (incapaci di parlarsi dopo la morte di uno dei figli) o tra padre e figlia come nella vicenda giapponese, dove la sordità della giovane protagonista si fa simbolo evidente di un’assenza di comunicazione più generalizzata. Tuttavia questo, che costituisce il nucleo tematico più appariscente del film, rimane solo a un livello di superfice. A un livello più profondo ritroviamo il solito tema della coppia Inarritu-Arriaga: quel senso di colpa legato ad un trauma rimosso che riemerge piano piano, incalzato dagli eventi drammatici (e imperscrutabilmente fatali) verso la necessaria catarsi finale. E così il dialogo di chiarimento finale tra Brad Pitt e la moglie, malgrado la cornice “globalizzante”, assomiglia moltissimo alla riconciliazione finale tra il personaggio interpretato da Benicio del Toro e la consorte in 21 Grammi, o al “messaggio in segreteria” dell’ ex-guerriglero nell’episodio finale di Amores Perros .

Il film, che parrebbe una riflessione sulla globalizzazione è invece, esattamente come 21 Grammi, una riflessione sui traumi inespressi, sui i sensi di colpi rimossi, sull’incapacità degli uomini di relazionarsi e di portare alla luce le proprie angosce profonde, a qualunque latitudine. Insomma poca politica e tanto dolore esistenziale.
Ma fino ad un certo punto. Perchè la descrizione della “civilissima barbarie” che si consuma ogni giorno lungo i confini tra Stati Uniti e Messico, nei deserti dell’Arizona, della California e del Texas, sulla frontiera più calda del pianeta – per inciso la parte più sincera e convincente del film – rappresenta l’atto d’accusa di un messicano deluso dal ricco paese vicino che l’ha accolto tra le sue braccia, ma respinge invece i suoi connazionali meno fortunati.

Per il resto il film conferma i meriti e limiti di Inarritu. Da una parte la grande maestria nell’impaginare i film, nell’incastrare le storie – anche se qui la destrutturazione, più “geografica” che narrativa, suona a volte un po’ artificiosa; l’abilità nel dirigere gli attori – quanto mai assortiti tra semiprofessionisti e stelle da blockbuster (non solo Pitt e la Blanchett, ma anche il divo latino Garcia Bernal); e il virtuosismo di alcune sequenze – meravigliosa quella che racconta la serata in discoteca della protagonista giapponese, con le continue soggettive silenziose che ne sottolineano l’estraniamento. Dall’altra parte riemergono lo stesso strisciante manierismo e gli stessi eccessi melodrammatici già riscontrati in 21 Grammi. Insomma, malgrado le buone intenzioni, Iñarritu non sembra più essere stato in grado di tornare al felice equilibrio dell’opera prima, nella quale il suo indiscutibile talento visivo, la sapiente costruzione drammaturgica dello script di Arriaga e la descrizione sempre asciutta e mai compiaciuta della violenza e delle ingiustizie sociale della capitale messicana avevano trovato una sintesi straordinariamente felice.

Un’ultima (pessima) nota sul doppiaggio della versione italiana. Doppiaggio che vede tutti i personaggi ispanici del film esprimersi con un improbabile accento a metà strada tra un veneto da recita parrocchiale e la parlata del gabibbo. Ma quand’è che anche in Italia qualche distributore “oserà” ciò che è prassi comune in tutti i paesi del mondo (tranne che nella post-autarchica Italia) e cioè mandare nelle sale i film in lingua originale con i sottotitoli?

Francesco Zurlo

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