Quattordici è un bel numero per finire. La prima puntata di questa superficiale, maliziosa e pruriginosa rubrica (al film di natale questa pagina gli fa una pippa) esordiva citando gli Afterhours. Come nostri Numi, questi musicisti anni ’90 milanesi ci hanno tutelato per tutta la durata di questa penosa traversata nel deserto, fatta di inconcludenza, di ritardi clamorosi nella consegna dei pezzi, di mononucleosi, di sconforto e ribrezzo per la sorte dell’Italia. Ed è proprio questo sconforto che, dopo avermi prostrato e costretto a tre giorni di divano, in compagnia di ben due documentari sul Feldmaresciallo Rommel, mi ha fatto capire che è ora di finire di menare il can per l’aia, come direbbe un allevatore fino a poco prima in collera col proprio cane in un’aia. Voglio occuparmi di vero giornalismo, voglio scendere in strada, fare la cronaca, raccontare il mio tempo. Ecco perché giungo in questa sede a ripudiare ogni cosa che abbia riguardato gli anni ’80: i Prefab Sprout, Marco Predolìn, Marco Columbro, la profezia che feci sulla vittoria dei Mondiali, il povero Michael J. Fox e le sue dinamiche scalate al successo, i dischi di Tony Brando (specialmente “Collant, Collant”), il videogioco delle Olimpiadi nel quale vince sempre il bianco e il nero subisce l’onta della deportazione a Treviso, tutti i giocattoli di quel maledetto decennio (compresa la loggia P2), le pubblicità sul Natale a casa dei manager prima che venisse scoperta la cocaina, le meteore della canzone che proponevano testi pornografici (ricordo “Hop Hop Somarello” e “Ping pong”), e tutta la classe dei ragazzi della Terza C. Non vedo l’ora di occuparmi dei nuovi Olindo Romano, delle storielle sessuali di Alberto Stasi, dell’ennesima marachella di Anna Maria Franzoni e dei suoi 152 figli, di Berlusconi che fa parlare Chavez con Aida Yespica mentre Ferrara si pasce, ignaro, in una linda vasca da bagno. Se qualche lettore là fuori si dispiacerà della chiusura di questo spazio, allora vorrà dire che in quattordici puntate non sono riuscito a veicolare alcun messaggio, alcuna morale. Bene. Eccellente. E’ proprio quello che volevo. Ripercorrere il “decennio infame” in modo così frammentario e decostruito, è stato quanto di più superficiale vi potevate aspettare da questo giornale, definito in passato come “qualche migliaia di parole un po’ pallosette”. Ma adesso basta: l’attualità ci attende. Un mio amico, vedendo un bambino che sedeva su di una rovina romana alle Terme di Caracolla, gli urlò: “scendi scemo!”. Quello scese. Scendete anche voi dalle rovine di quegli anni. Gli Afterhours dicevano in una loro canzone che la fine è la cosa più importante.
Fabrizio Aurilia