Del: 3 Dicembre 2009 Di: Redazione Commenti: 4

“Com’è triste Venezia soltanto un anno dopo” cantava Aznavour, e come di consueto anche la 66esima Mostra del Cinema è stata un nostalgico rincorrersi di rimpianti per mostre passate che non torneranno più, piene di film bellissimi, prezzi economici, servizi efficienti e con un clima migliore.
La realtà ovviamente è ben diversa e i difetti storici della mostra sono sempre gli stessi: lunghe code, film selezionati che lasciano perplessi, prezzi folli e una programmazione poco razionale (una sola visione inizialmente prevista per il discusso Videocracy, mentre l’improbabile documentario “Villalobos”, su un dj tedesco-cileno veniva proiettato più volte in sale deserte).
Ai difetti tradizionali se ne sono aggiunti di nuovi: il cantiere per il nuovo palazzo del cinema che ha trasformato la mostra in autentico labirinto o l’invasione di dozzine e dozzine di membri delle forze dell’ordine, a volte in superflua tenuta anti-sommossa, che davano la sensazione di essere nella scuola Diaz durante il G8.
In realtà, possiamo dirlo, la 66esima Mostra è stata più che soddisfacente: sono aumentati sensibilmente i biglietti venduti e gli accrediti per la stampa, soprattutto straniera. Il numero record di paesi presenti poi, addirittura 25, ha dato alla kermesse un’atmosfera veramente internazionale, anche se alcune volte la sensazione è stata che certi film fossero scelti più per meriti “etnici” che artistici. Impagabile per esempio la proiezione del film cingalese “Ahasin Wetei”, con il pubblico in sala protagonista di un esodo degno dell’Antico Testamento. Per giunta l’accoppiata tra Ang Lee, presidente della giuria, e Marco Muller, direttore della Mostra e notoriamente fanatico del Sol Levante, faceva temere un festival troppo orientato verso l’Asia. In realtà i pur numerosi film orientali presenti erano spesso di ottima qualità, come il taiwanese “Prince of tears”(vi risparmiamo il titolo in mandarino).
Un discorso a parte va fatto per i documentari presenti, veramente tantissimi, probabilmente troppi. Innumerevoli gli argomenti trattati: l’integrazione degli stranieri, l’amore omosessuale, i dj emergenti, il Teatro Piccolo di Milano e così via. Oltre a Videocracy di cui parleremo a parte, “Capitalism” di Michael Moore e “South of the border” di Oliver Stone. Ha riscosso grandi consensi il godibilissimo documentario di Moore, che nel criticare il capitalismo americano mostrandone aspetti francamente grotteschi (inimmaginabili in Italia), finisce per contestare il capitalismo tout court, lasciandoci con un finale un po’ confuso. Non ha fatto invece una bella figura la Mostra e il suo pubblico quando Chavez, presente sulla croisette, è stato acclamato come una star. Il film di Stone infatti tesse le lodi dei vari leader anti-Bush del Sud America, peccando però di una faziosità che inficia quanto di giusto viene detto.
L’assenza del capolavoro, del film che primeggiasse nettamente sugli altri, ha aumentato la curiosità il giorno delle premiazioni. Il film vincente, l’israeliano “Lebanon”, girato tutto all’interno di un carrarmato, è la cruda descrizione della guerra in Libano. Da alcuni è giunta la critica di sempre: quella di una vittoria politica e non artistica. Ma per lo stesso motivo si sarebbe criticata la vittoria dell’iraniano “Women without men” della giovane Shirin Neshat, premiata con il leone d’argento alla regia, dove le tematiche attualissime sono elegantemente travestite da romanzo storico. Tra gli altri seri candidati alla vittoria finale c’era il francese “Lourdes”, evitato inizialmente da molti (come il sottoscritto) nel timore di vedere il solito polpettone misticheggiante. Si è rivelato invece un film scettico e intelligente, a tratti molto emozionante. La sua vittoria, però, avrebbe probabilmente permesso di aggiungere l’accusa di “miscredenza” a chi considera il festival un ricettacolo di parassiti a cui chiudere i rubinetti. Per quanto riguarda l’altro grande escluso dai premi, “Baaria”, criticato dagli spettatori alla mostra ben oltre il giusto e apprezzato dai critici tv ben più del meritato per lo stesso motivo (ovviamente il suo produttore, mister B.), non è mai stato veramente in lizza per la vittoria: in un’opera senz’altro di valore erano di troppo sia la durata eccessiva sia il finale francamente stucchevole.
Discussissimo il premio alla miglior attrice femminile, la semisconosciuta Ksenia Rappoport di “La doppia ora” di Giuseppe Capotondi, per molti un po’ algida (bellissimo invece il film), mentre ha suscitato larghi consensi la coppa Volpi a Colin Firth per “A single man”, da elogiare per aver pronunciato, evento più unico che raro per un anglosassone, il discorso di ringraziamente in italiano (con effetti per la verità un po’ alla Stanlio e Ollio).
La conclusione non può che essere quella di ogni festival: godersi i film, quando ne vale la pena, e lasciare agli altri le speculazioni intorno ai premi.


Filippo Bernasconi
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