Del: 20 Maggio 2011 Di: Redazione Commenti: 0

Titolo: La pianta del tè

Autore: Ivano Fossati

Anno: 1988

Un grande musicista scopre alla fine degli anni Ottanta che la propria voce aspra può reggere melodie suggestive e straordinariamente evocative. È così che Ivano Fossati ci prende per mano per un viaggio soave, al ritmo andino dei flauti, accompagnandoci verso spunti etnici e fascini notturni con una leggerezza inattesa. È un viaggio musicale sudamericano in cui l’ermetismo dei testi del cantautore ligure non ci scoraggia, perché le parole scivolano sulla melodia senza attriti come nella canzone che dà titolo all’album, La pianta del tè, in cui ci sentiamo abbandonati in uno scenario alieno e perdiamo ogni certezza: “come cambia le cose / la luce della luna / come cambia i colori qui / la luce della luna /come ci rende solitari e ci tocca”. Siamo in India (“Altipiano barocco d’Oriente”) ma sentiamo suonare flauti a canne delle Ande, e non ci resta che inginocchiarci davanti all’immensità preclusa alla nostra comprensione e guardare all’interno di noi stessi, perché “chi si guarda nel cuore / sa bene quello che vuole / e prende quello che c’è”.

In questo album Fossati propone un nuovo arrangiamento per una sua canzone molto famosa, La costruzione di un amore, sette anni dopo Panama e i suoi dintorni. Il testo non cambia, è sempre lo sguardo sull’amore privato, quell’aspetto del sentimento che non riguarda il rapporto tra gli amanti ma soltanto le sofferenze, le fatiche e gli sforzi che ognuno nella propria dimensione personale pone al centro della propria costruzione del rapporto sentimentale. La melodia invece è meno cupa di quella della versione precedente, illuminata anche in questo caso da spunti etnici e da una cura per i particolari tipicamente fossatiana.

La terza canzone di questo album che merita di essere riascoltata non è tra le più note del cantautore, ma sicuramente è una delle più importanti per comprenderne il rapporto con la propria terra. Chi guarda Genova è una canzone bellissima, che parla di Genova senza la minima inclinazione campanilistica o sentimentale. Genova è, nel 1988, una città sulla soglia di cambiamenti epocali (la perdita di importanza del porto, la trasformazione da città delle industrie pesanti al turismo e il risanamento del centro storico, iniziato nel 1992) e Fossati, genovese incapace di abitare nella grande città e rifugiatosi nell’entroterra del Levante, guarda la città dal mare, perché “chi guarda Genova sappia che Genova / si vede solo dal mare”, e ci spiega che non dobbiamo aspettarci niente di più rispetto a “quei gerani che la gioventù / fa ancora crescere nelle strade”. I gerani sono fiori colorati e luminosi, ma poveri come Genova, una città bellissima ma ormai lontana dai fasti e dal lusso che l’hanno resa La Superba, una città ancora vitale grazie al suo grande porto, causa però di sofferenza per le morti che colpiscono chi ci lavora (“porto di guerra senza un soldato / senza che il conflitto sia mai stato dichiarato”). Una città in cui le differenze tra le classi sociali sono inscritte negli stereotipi (“un luogo di avvocati con i loro mobili da collezione / e di commesse che gli avvocati la sera accompagnano alla stazione / commesse senza parola e senza restituzione”) e dove anche l’arte di Fossati non riceve molte gratificazioni (“bella signora che mi lusinghi / citando a memoria le mie canzoni / il tuo divano è troppo stretto / perché io mi faccia delle illusioni / abbiamo tutti un cuore arido / ed un orecchio al traffico”). Ma Genova non è una città insensibile, è una città che non può distrarsi perché deve rimanere aggrappata disperatamente alla terra ferma in attesa di poter mollare la presa e abbandonarsi finalmente tra le onde (“restiamo volentieri ad aspettare / che la nostra casa stessa riprenda il mare”). Il cantautore, giunto a questo punto, ripensa ai suoi versi aspri, aspri come quella Genova che ammette di aver descritto nei suoi aspetti meno piacevoli, con tutta la ritrosia di un vero genovese che alla sua città dedica “gerani e non parole d’amore”.

L’album comprende altre canzoni, tra le quali anche la più nota è certamente Quei posti davanti al mare, in cui Fossati canta insieme a Francesco De Gregori e all’amico Fabrizio De Andrè. Siamo nel 1988, Fossati è già un cantautore affermato, ma soltanto con questo disco raggiunge la completa maturazione artistica e musicale (e i due successivi lo consacreranno nell’Olimpo della musica colta italiana). Decisamente da riascoltare per la prima volta.

Angelo Turco

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