Del: 28 Novembre 2011 Di: Redazione Commenti: 5

Il più consolidato luogo comune letterario vede nel libro “Cuore” di De Amicis una esasperante sarabanda di amenità reazionarie,sentimenti caramellosi ed eroismi anacronistici. “Ma i luoghi comuni letterari spesso sbagliano”, penserà qualcuno… Verissimo, ma non in questo caso! Ogni riga, ogni sillaba del volumetto trasuda di bontà scontata, di ipocrisia untuosa. E se la lettura innocente fatta da bambini poteva lasciare giusto un po’ di noia, la rilettura porta un insopprimibile senso di nausea.

Fosse solo per la scarsa verosimiglianza, il libretto sarebbe anche accettabile. Prendiamo ad esempio il piccolo patriota padovano che chiede l’elemosina su un piroscafo. I passeggeri lo aiutano, ma poi osano criticare l’Italia e i suoi treni (e come dargli torto?). Non l’avessero mai fatto! Una tempesta di monetine sommerge immediatamente le loro bocche impertinenti. Passi poi se il buono della classe, Garrone, è un bambinone che a tredici anni fa ancora la terza elementare (“grand e gross, pussé ciula che baloss”, direbbe il padre di un altro celebre ripetente, ora consigliere regionale). E ancora, poco male se Enrico, l’insulso narratore, trascorre il tempo libero una volta dal maestro ottuagenario del padre, un’altra alle scuole serali frequentate da operai (che storia, studiano anche loro!), un’altra ancora dai “bambini rachitici” (sic) o da quelli ciechi. Si potrebbe addirittura perdonare il feticista padre di Coretti, che tocca la mano al re e poi la porge al figlio gridando “E’ ancora calda!”. Lascia però veramente sgomenti il classismo capillare, in un’opera che vorrebbe essere “socialista”. Nel tragicomico capitolo “Gli amici operai” ad esempio, il ricco padre del protagonista invita il figlio, da grande, a salutare ugualmente i suoi vecchi compagni poveri, ormai inevitabilmente fabbri o ferrovieri. E il destino di tutti è già segnato: il ricco figlio babbeo magari anche Senatore del Regno, e il bravo e volenteroso Precossi a lavorare nero di carbone, forse graziosamente omaggiato d’un saluto.

Impagabile poi l’accoglienza riservata al ragazzo calabrese. Ricevuto in classe come un buon selvaggio, la penna di De Amicis indugia sull’inevitabile viso bruno e gli occhi neri, contornati da “sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte”: peccato che al quadretto lombrosiano manchino i baffi, ma la tenera età del migrante non lo consentiva. I compagni lo integrano così bene che per tutto il libro viene chiamato “il calabrese”, e per non farlo sentire a disagio gli regalano penne e matite come a un profugo. Ma niente paura: ecco intervenire il primo della classe, Derossi, di cui Enrico ammira languidamente la bellezza, la fronte alta e i bottoni luccicanti. Il bel tomo, al colmo della filantropia, afferra il forestiero e lo bacia calorosamente, annota Enrico con una punta di invidia. E tra commozione e lacrime sembra quasi di vederlo, il bravo lettore borghese ottocentesco, saltare sulla sedia, pervaso sì dai buoni sentimenti, ma anche da un po’ di disgusto!

Filippo Bernasconi

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