Del: 6 Settembre 2012 Di: Redazione Commenti: 0

La campagna per le Elezioni Presidenziali negli U.S.A. sta entrando nel vivo e, a pochi giorni dall’incoronazione di Mitt Romney a Tampa quale campione del Partito Repubblicano, si è aperta a Charlotte la convention Democratica che investirà Barack Obama del compito di riconfermare per altri quattro anni la propria presidenza.

Lasciando alla stampa internazionale il compito di analizzare il duello a distanza tra i due candidati (proprio stasera il presidente uscente terrà il suo discorso), vorrei proporre una riflessione sul discorso di Bill Clinton e sulle sensazioni da esso suscitate tra i delegati democratici e tra tutti gli osservatori internazionali, tra i quali nel nostro piccolo ci ascriviamo.

Sono sostanzialmente due i fili rossi intrecciati nella riflessione suscitata dall’ascolto delle parole del vecchio presidente, uno di natura politica e uno di natura sentimentale. Il Partito Democratico e il Partito Repubblicano non hanno una differente ideologia, bensì una differente declinazione di questa ideologia nelle politiche pratiche attuate e da attuarsi. Entrambi i partiti condividono infatti i principi cardine del pensiero liberale e, nella loro visione economica, entrambi sostengono tesi liberiste e mercatiste. Sia i Dem che il GOP si ispirano al grande ideale dell’American Dream, quel sogno per cui tutti possono realizzare le proprie aspirazioni nella “promised land” degli Stati Uniti d’America, ed entrambi i partiti credono fermamente nella superiorità morale della propria Nazione e del compito ad essa assegnato (da Dio e dalla Storia) nella redenzione del mondo.

Posto quindi che entrambi condividono la stessa visione del mondo, è del tutto evidente che l’applicazione pratica dei propri ideali diverga sensibilmente nella prassi politica. Non è questo il luogo per dilungarsi sulle divergenze tra le amministrazioni Reagan e Clinton o le amministrazioni Bush e Obama, ma è interessante tuttavia ricordare quanto spesso presidenti di un partito abbiano fatto proprie le battaglie politiche degli avversari (la riforma del welfare di Clinton “scippata” al GOP o la normativa sulla finanza del 2008 varata dall’amministrazione Bush con i voti dei Dem e anche ricordata nel docu-film “Too big to fall”, per fare due esempi recenti). Un’altra conseguenza di questa condivisione di fondo della stessa ideologia comporta un duello politico incentrato spesso su tematiche estremamente lontane dalle logiche europee di costruzione del consenso (ad esempio il ruolo della First Lady, determinante nella scelta di un candidato presidente piuttosto che del suo sfidante, o la prestanza atletica del candidato stesso).

Il punto fondamentale della riflessione riguarda però quel momento in cui l’ideologia fondamentale entra in crisi insieme al sistema economico da essa forgiato: il Partito Democratico, consapevole che la crisi iniziata nel 2008, e tutt’altro che terminata, deriva da una mancata regolamentazione della finanza e dalla speculazione selvaggia, sta cercando di proporre temi tipicamente socialdemocratici (la redistribuzione della ricchezza tramite tassazione progressiva su tutti) cercando però in tutti i modi di non apparire un partito socialdemocratico agli occhi dell’elettorato, termine visto alla stregua di un insulto (e come tale impiegato dai Repubblicani) nella società americana. La democrazia americana non ammette ideologie diverse da quella prestabilita, pena l’emarginazione politica, e quando quell’ideologia fallisce i suoi obiettivi è molto difficile smarcarsene.

La seconda riflessione riguarda invece il vecchio Bill Clinton, ed è una riflessione più sentimentale che politica. Egli ha incarnato il senso di rivincita di una generazione e di intere classi sociali dimenticate, capaci di infrangere l’enorme consenso repubblicano nato con l’era di Ronald Reagan e proseguita dal suo vice Geroge Bush Senior, e di portare alla Casa Bianca un democratico di seconda linea, proveniente da uno Stato marginale come l’Arkansas, con una storia politica alle spalle fatta di successi e insuccessi. Clinton è stato tutto questo nel 1992, “il primo presidente nero”, perché dodici anni di amministrazione repubblicana avevano completamente rimosso dall’agenda politica americana la parificazione sociale, ma è stato anche il presidente di molti compromessi (perché costretto alla coabitazione con un Congresso a maggioranza repubblicana, e molto agguerrita), uno tra tutti quello sul mercato del lavoro con il quale costrinse l’opposizione repubblicana all’afasia, sottraendole una battaglia decisiva.

Clinton ha incarnato nella sua figura gli anni Novanta nella stessa misura in cui Reagan ha incarnato gli anni Ottanta, costruendo un’immagine di serenità e prosperità sorrette dalla crescita economica derivante dallo sviluppo del settore delle nuove tecnologie informatiche. Ha superato indenne le sconfitte nelle elezioni di medio termine, il Sexgate, la guerra nei Balcani e la sconfitta del suo vice alle elezioni del 2000, ed è tutt’ora il politico americano più amato (gli indici di gradimento gli assegnano un 67% di fiducia a fronte del 45% del presidente in carica). Il motivo per cui Bill Clinton è in grado di raccogliere a sé questo immenso patrimonio di consensi e fiducia non risiede nella memoria della sua Amministrazione, bensì nella memoria di ciò che è stata l’America negli anni Novanta, una Nazione in crescita, rimasta sola al comando dei destini del mondo dopo la caduta dell’Unione Sovietica, in cui il famigerato American Dream era più vivo che mai e il cinema di Hollywood poteva descrivere nelle sue commedie quegli scenari sereni e fiduciosi che dagli anni Cinquanta e Sessanta non venivano più riproposti agli occhi del mondo occidentale.

Oggi il compito di Bill Clinton è quello di spingere il presidente Obama verso una riconferma difficile, nonostante quattro anni fa proprio Obama sottrasse la nomination alla moglie ed ex first lady per la quale egli si era speso moltissimo. E’ un compito al quale si è dedicato con fervore forse anche per dimostrare al suo più giovane successore che il vero leader dei Democratici era ed è rimasto ancora lui, il vecchio leone dell’Arkansas, venuto dal nulla per sconfiggere l’invicibile Grand Old Party.

Angelo Turco

 

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