Del: 22 Ottobre 2012 Di: Redazione Commenti: 0

Data la fortuna e l’interesse quasi macabro suscitato dalle opere di Gunther Von Hagens, autore della mostra Body Worlds, che mette completamente a nudo l’anatomia umana, è curioso notare come questo filone si possa inserire in continuità con l’interesse cinquecentesco per l’esercitazione anatomica. La differenza tuttavia è palese: mentre una volta i corpi venivano sezionati per capire a fondo la complessità del corpo da riprodurre nella composizione, nel XXI secolo sono gli organi stessi a diventare opera d’arte (sempre meglio di Gericault, che per realizzare la sua Zattera aveva così martoriato i propri modelli, che forse avrebbe fatto prima a dipingere in un obitorio).

Già secoli addietro gli artisti si scervellavano per creare corpi muscolosi e vivi, incominciando a concentrarsi sulle figure e sulle torsioni dei corpi, fino a sviscerare ogni singolo arto e ogni muscolo: famosi sono gli studi preparatori degli Ignudi di Michelangelo Buonarroti (dettagliati anche a causa di un interesse per il corpo maschile diverso da quello meramente artistico) come pure la minuziosità dei disegni di Leonardo da Vinci.
E fu proprio Leonardo a iniziare questo nuovo gusto per l’anatomia che influenzò fortemente l’arte a lui successiva. Non avendo mai avuto la fortuna di vedere da piccolo “Esplorando il corpo umano” (chi non l’avesse mai visto, vada subito a farsi una cultura), l’artista decise di supplire lui stesso a questa carenza di informazione. Gli studi di anatomia erano ancora fermi alle credenze antiche e nonostante la dissezione non fosse più un tabù, c’era chi ancora si basava sullo smembramento di grandi animali (grandi, naturalmente, perché l’uomo era il modello di riferimento, sembra un paradosso, ma forse il concetto “l’uomo è un animale sociale” è stato preso troppo alla lettera.); Galieno addirittura aveva deciso che la cavia ideale fosse il maiale, forse perchè aveva riscontrato qualche uguaglianza comportamentale, applicando le sue scoperte direttamente in campo umano.
Leonardo, invece di diventare un abile profanatore di tombe, decise di sfruttare a fondo la sua fama e il suo prestigio, ottenendo dai vescovi il permesso di comprare delle salme per motivi di studio, riproducendo fedelmente le sue scoperte nel codice ora situato nel castello di Windsor. Nonostante l’oscurantismo di questi disegni fino al seicento, essi influenzarono notevolmente la cultura milanese e le opere successive alla sua permanenza nella capitale lombarda.
Un esempio calzante si trova nascosto nella penombra del braccio destro del transetto del Duomo di Milano. Si tratta di una scultura finemente lavorata che ha ammaliato e inorridito generazioni di visitatori, ma che certamente non può passare inosservata da chiunque le passi accanto. La figura rappresentata è quella di San Bartolomeo, soggetto che si presta molto bene come esercizio anatomico data la natura del suo martirio; infatti morì probabilmente in Siria condannato alla morte persiana: fu scorticato vivo e poi crocifisso (che si inserisce bene nella tradizione delle morti violente e cruente che caratterizzano le storie dei santi). Per questo i suoi attributi principali sono il libro delle sacre scritture, il coltello con il quale fu spellato e la sua stessa pelle divelta dal corpo. Un’iconografia che sembra quasi copiata da quella classica di Marsia, il satiro scuoiato da Apollo come punizione per essersi ritenuto più bravo del dio nell’arte della musica.
Il San Bartolomeo in Duomo è opera di Marco d’Agrate, artista oggi, purtroppo, alquanto sconosciuto, che realizzò la scultura nel 1562 per essere collocata all’esterno del fianco meridionale della cattedrale (quello che guarda verso Palazzo Reale). L’opera era talmente apprezzata che fu spostata nel 1664 nella collocazione attuale per musealizzarla con un intento conservativo. Molto probabilmente fu in questa occasione che fu posta alla base della statua la curiosa epigrafe “Non me Praxiteles sed Marc(us) finxit Agra(tes)” (Non mi fece Prassitele, ma Marco d’Agrate). Con questa iscrizione si voleva rendere omaggio alla maestria con la quale fu realizzato questo saggio accademico, paragonando l’artista al sommo scultore dell’antichità: un modello quasi inimitabile.

Effettivamente la tecnica con la quale viene resa è precisa e raffinata. Quelle che da lontano sembrano piaghe di un vecchio saggio, sono in realtà i muscoli e le vene posti a vista, realizzati in modo da rendere vivo e parlante il marmo; mentre quella che ad una prima occhiata sembra la toga di un oratore, in realtà è la stessa pelle del santo che usata come grande peplo per coprire il corpo nudo (anche perchè una soluzione come quella adottata da Botticelli nella sua Venere, dove la dea si copriva pudicamente con la sua stessa chioma, qui non era attuabile). Anche la testa del santo, che pende inespressiva e con le orbite vuote dalla sua spalla, è resa con una verosimiglianza impressionante, con una chioma riccioluta debitrice della rappresentazione di San Bartolomeo all’interno del Giudizio Universale di Michelangelo.
Che piaccia o meno questa statua, la maestria con cui fu resa ci fa capire che non bisogna limitarsi ai “grandi artisti” per trovare una vera opera d’arte.

Paola Gioia Valisi

 

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