È difficile scrivere di una società come Atari, una delle prime a sviluppare e produrre videogiochi, quando si appartiene alla generazione successiva, abituata a ben altri standard.
Da accanito giocatore, però, fa tristezza veder chiudere la Atari per bancarotta. Certo, negli anni ha cambiato padroni e nome, ma le origini non si possono né dimenticare né bistrattare.
Nel 1966 Nolan Bushnell lavora insieme al suo amico Ted Dabney e fonda la Syzygy Engineering; ma il nome è già preso da un’altra società e, per evitare problemi di copyright, i due prendono il nome da una mossa del Go: Atari (una dichiarazione che un giocatore fa all’avversario quando esiste una situazione in cui una pietra o un gruppo di pietre è in imminente pericolo di presa). Siamo arrivati al 1972.
Il primo gioco si ispira al tennis ed è entrato nella storia mondiale dei videogiochi (e sempre lo sarà): Pong. Lo schermo nero con due barrette luminescenti e la pallina (un quadratino) sono entrati nell’immaginario di una generazione intera, che si sfidava a colpi di “racchetta” con la possibilità di competere contro un amico.
La società Atari combatté fin da subito con una concorrenza inaudita: la Mattel presentò la sua console: Intellivision; nel frattempo, in Giappone, nasceva la Nintendo, creando un vero e proprio mercato che presto sarebbe sbarcato in tutto il mondo.
Atari provò a difendersi con il lancio di una console più moderna (Atari 5200 rispetto alla prima, Atari 2600). In seguito cambiarono molte cose (e nomi), ma l’azienda non riuscì a compiere il passo decisivo per restare a galla, pur essendo stata tra le prime a sviluppare videogiochi e ad avere il maggior successo.
L’avvento di Sony e di SEGA stregarono le nuove generazioni, lasciando briciole alle case sviluppatrici come Atari.
L’occhio nostalgico di molti fan (tra nuove e vecchie generazioni) guarda ancora con affetto a tutte le consolle prodotte e ai primi videogiochi, versando qualche lacrima quando si accorge che la nuova ondata di consolle ha spazzato via tutto quanto, anche il rispetto per chi, un tempo, fu dominatore incontrastato sul campo.
Daniele Colombi