Del: 22 Maggio 2013 Di: Redazione Commenti: 1

 Tutte le società, le epoche, le culture umane conoscono spazi, momenti e contesti rituali di sospensione o di rovesciamento dell’insieme dei rapporti sui quali si fondano: il carnevale, il naven, lo stato d’eccezione. Luoghi fisici di eccezione sono continuamente istituiti o tollerati anche dai poteri sovrani, siano essi le prigioni, i paradisi fiscali o le terre di nessuno fra i confini nazionali.

Il problema connesso con la trasgressione delle norme non riguarda tanto la legge in quanto tale, l’offeso principio. L’occupazione di un’area non è un problema in sé (è tollerata se concessa), ma ci parla piuttosto dei rapporti di potere fra i membri di una società e della loro disponibilità ad accettare minoranze e isole di diversità senza dominarle. La questione centrale riguarda chi ha il diritto (ovvero il potere) di sospendere o invertire che cosa, dove e per quanto. Assistiamo continuamente all’istituzione di eterotopie, di luoghi in cui si argina l’alterità. Si consacrano aree specifiche per controllare le devianze, luoghi d’eccezione volti a disciplinare, controllare e regolare la sospensione dei rapporti sociali al loro interno preservando la sacralità esterna. I manicomi, i cimiteri, i campi nomadi e di concentramento, le prigioni, sono luoghi o momenti definiti nei quali viene marginalizzata e racchiusa l’alterità dei criminali, dei morti, dei pazzi, degli stranieri illegalizzati su un territorio nazionale, riconfermando il nomos dei sani, dei vivi, degli innocenti, dei nativi, dei «normali» e così via. Un potere sovrano può concedere margine d’esistenza alla propria nemesi allo scopo di controllarla, come avviene in molte ritualità di inversione. La sovversione delle regole sa anzi essere così radicale che persino un omicidio può divenire lecito se un potere sovrano istituisce un’area e un periodo definiti «guerra», una circostanza di alterazione radicale in cui la legge stessa si sospende da sé, prevede il suo annullamento, legittima la propria sospensione. La genesi di un’eterotopia è tollerata o promossa da un sovrano, uno Stato, un consiglio di amministrazione, ecc., quando le regole che la governano derivano dallo stesso potere che deliberatamente decide quando e come infrangerle, sospenderle o variarle al proprio interno, ossia quando un’autorità può includere la devianza nell’estensione del suo stesso dominio.

Ma che cosa accade quando l’istituzione di un’eterotopia affrancata dalla norma egemone avviene senza la legittimazione di un potere sovrano, ignorando un monarca, un esecutivo, un concilio, un rettore? Che cosa accade se ad essere oggetto di sospensione e critica radicale non sono tanto le tradizioni estetiche, i canoni sessuali o le abitudini alimentari e linguistiche, ma le regole fondanti del mercato, della proprietà privata, dell’autoritarismo su cui si basa un’intera struttura sociale, università compresa?

L’università è stata e può essere un luogo adatto, e non mancano esempi contemporanei. Fino al 2011 una norma garantiva diritto di asilo nell’area universitaria del Politecnico di Atene, ai margini del quartiere di Exàrcheia, noto per essere il nucleo ideale dei movimenti anarchici. Alle forze dell’ordine greche era proibito accedere agli edifici: l’università era zona franca. Malgrado l’articolo sia stato infranto all’occorrenza tanto dalla polizia quanto dall’esercito, molti edifici sono ancora occupati come squat illegali che nessuno si prende (ancora) la briga di sgomberare e che sono gestiti da assemblee studentesche. L’area non segue orari d’ufficio 9.00 – 19.30 ma è accessibile giorno e notte. Studenti ed extrauniversitari usano le strutture per preparare progetti di tesi, studiare, suonare, dormire, organizzare assemblee, seminari, manifestazioni. Vi si protegge e ospita perfino un gruppo di rifugiati politici palestinesi senza mezzi, patria, diritti. Le ragioni di questa tolleranza rimandano alla Rivolta del Politecnico di Atene nel novembre 1973, la nota occupazione che portò al tramonto della Dittatura dei Colonnelli (1967-74). Mentre oggi ad impedire l’ingresso della polizia restano solo alcuni articoli del regolamento interno, lo status quo delle occupazioni universitarie è stato quindi tollerato fino a ieri per ragioni storiche e politiche.

L’occupazione ateniese iniziò come esplicita protesta nei confronti del regime. Una minoranza pretendeva (non chiedeva, non elemosinava: prendeva) spazio ed esistenza all’interno di una dittatura militare. Un circoscritto gruppo sociale affermava cioè la propria esistenza deviante contro l’egemonia esterna e proponeva dall’interno un ordine alternativo, in quel caso democratico. Il modello interno si estese e ricevette supporti dalla cittadinanza. La reazione fu una violenta repressione nel sangue: carri armati AMX30 a sfondare i cancelli del Politecnico, cecchini dai tetti che sparano sulla folla. La dichiarazione di esistenza di una minoranza collima con la richiesta o l’appropriazione di spazi fisici. Una devianza afferma di esistere, e di esistere necessariamente in un luogo, fosse anche una comunità virtuale. L’autodeterminazione politica di un gruppo passa attraverso una delicata negoziazione di potere con l’egemonia esterna. L’ONU nel ’48 accetta l’autoproclamazione dello Stato di Israele nel momento in cui non interviene a sgomberarne le terre occupate, gli accorda esistenza in un luogo, mentre nel medesimo spazio è negata l’esistenza dell’identità palestinese. L’emersione spontanea della minoranza può essere riconosciuta, tollerata o repressa in relazione al suo grado di devianza. Laddove un potere sovrano non intende convivere con la devianza dai propri valori portanti (denaro, religione, autorità, burocrazia, proprietà privata, fallocrazia, lingua) e non intende rinegoziare i propri privilegi, il rifiuto dell’alterità può diventare negazione dell’esistenza stessa di una voce dissonante. Dopo verranno pretesti, giustificazioni, retoriche, forze maggiori.

Senza entrare dalla porta principale nel merito degli eventi di Festa del Perdono, la ex-cuem (così come Macao, l’Officina dei Beni Comuni, il teatro Valle, il Garibaldi, ecc.) è esattamente un’emersione di devianza, un gruppo minoritario che impone l’esistenza di eterotopie spontanee in cui vengono sospesi i rapporti vigenti all’esterno, un carnevale non autorizzato e quindi non controllabile nel tempo dal potere sovrano, che rischia di diventare nuova norma se tollerata. Questi gruppi infrangono e contestano un potere costituito costituendone altri nel tessuto urbano, delegittimano l’autorità, rifiutano la proprietà privata, il principio del profitto, promuovono la struttura assembleare contro la gerarchia, diffondono un sapere critico differente, sperimentano forme di esistenza contro le norme circostanti. L’imperdonabile esibizione di forza armata e di violenza, la voce del padrone che con una telefonata o due righe d’inchiostro esecutivo diventa percossa sul volto, studentessa in ospedale, manganello sulla testa, si spiega bene pensando a quali rapporti identitari leghino le gerarchie universitarie ai princìpi capitalisiti, proprietari, autoritari contro cui gli occupanti si attivano, e ricordando che raramente il potere sovrano di un’identità forte accetta che nel suo recinto si sperimentino pratiche radicalmente divergenti fuori dalle eterotopie che esso stesso disciplina e controlla. Se la risposta della cultura egemonica si fa così aggressiva non è certo perché simili devianze siano inutili utopie, stupida ignoranza o atti criminali, ma perché scatenano il terrore del cambiamento senza controllo possibile, la crepa nel vaso, paura di rinegoziare privilegi acquisiti. L’identità minacciata da questo altro sa molto bene, dal movimento storico di fra Dolcino ai sem terra sudamericani, dal parco Navarino di Atene alle fabbriche argentine occupate fino alla democrazia diretta di piazza Syntagma (e si può continuare a lungo), sa fin troppo bene che simili devianze, con il sapere e le pratiche che diffondono, possono funzionare benissimo, possono estendersi e crescere fino a sovrastarla.

Moreno Paulon

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