Partirà a trecento km all’ora prima di poter spiccare il volo lungo una delle infinite piste del JFK di New York. Il decollo è previsto per le ore 20:00, oggi come ogni giorno, con a bordo bagagli umani, valigie soppesate al milligrammo, vite e speranze; undici ore e cinquantacinque minuti di traversata diretta, di agonia e cinture da allacciare e slegare ad ogni turbolenza, sorvolando un atlante a grandezza naturale che descrive un continente fatto di etnie inconciliabili, di un canale artificiale che è in realtà una catena, di ispanici e di gringos, di promontori e altopiani dove l’aria è pulita e rarefatta, di due oceani, di milioni di storie raccontate, vissute, inventate – di quelle che farebbero la fortuna di ogni romanziere.
L’atterraggio è previsto per le ore 07:55, mentre la città si riprende dalle angherie della notte appena trascorsa, presso l’aeroporto Arturo Merino Benìtez, Santiago del Cile.
È un viaggio attraverso la macchina del tempo, che ci riporta indietro di quarant’anni esatti: 11 settembre 1973, l’altro undici settembre – quello sponsorizzato dai buoni – quello che le telecamere non poterono loro malgrado immortalare nel videoclip della Storia, relegandolo per sempre ad un oblio infame, come solo i vincitori sanno essere.
Anche quella mattina, a sole appena alzato, il cielo si fece stuprare dalle scie gassose dei caccia Hunter che bombardavano il palazzo presidenziale dove risiedeva Allende assieme ai propri consiglieri; alcuni fuggirono e non sopravvissero, altri scapparono e furono arrestati, lui – pare – si tolse la vita nell’estremo gesto di vile dignità concesso ad un uomo.
In plancia di comando sedeva Augusto Pinochet, generale dell’esercito cileno destinato a far parlare di sé, a rimanere nella memoria marmorea dei cileni che uscirono indenni dai suoi quindici anni di feroce dittatura. Non un “uomo solo al comando” come si dice in questi casi, ma un tassello ordinatore, una pedina fondamentale di un golpe desiderato, se non palesemente finanziato, dall’amministrazione americana di quegli anni, intollerante all’idea di avere uno stato socialista nel “cortile di casa”.
Negli USA regnava Richard Nixon, ancora vergine dai fastidi del Watergate e dell’ impeachment, alla cui destra sedeva Henry Kissinger, colui che ha sempre vinto senza partecipare, il lato oscuro del sorriso americano; lo stratega venuto dalla Germania vinse anche quel martedì, ma per modestia continuò a negare.
Seguirono anni che trascorsero più lentamente del solito fino ad arrivare a dimenticarsi di quell’oblunga striscia di terra che vive nella perenne spaccatura fratricida tra le Ande ed il Pacifico.
Troppa carne nel bollitore mondiale di quel periodo per potersene occupare: il Vietnam, la strategia della tensione, il compromesso storico, le Olimpiadi e i Palestinesi, la crisi petrolifera ed Aldo Moro, gli anni ’80 e la deregulation, la finale di Madrid e Ronald Reagan, l’Afghanistan, Gorbaciov, Rocky Balboa, Khomeyni, Cosa Nostra, Craxi. Non c’era posto negli infiniti spazi dei nostri ripetitori e delle nostre rotative.
Dopo l’11 settembre ’73 altri aerei – ancora loro – partirono da e per Santiago; giganti in ferro pieni zeppi dei ragazzotti dell’Illinois – i “Chicago Boys” – con le loro fresche idee inzuppate di novità e accademia, con le loro menti brillanti purtroppo cinicamente inadatte alla situazione, con i loro investimenti giunti da lontano, con la loro follia che venne scambiata dagli altoparlanti occidentali per riformismo. Solo un folle può pensare di riformare una dittatura.
Un aereo consegnò al pianeta la grandezza ribelle di Luis Sepùlveda, la sua storia che divenne irrimediabilmente quella di un intero popolo, le sue pagine intrise di libertà e condanne senza appello.
Questi furono i voli noti, le tratte seguite dalle torri di controllo e dai monitor dei radar. Ma in una nazione che ha permesso ai capitali esteri di entrare a loro piacimento e che ha sbarrato ermeticamente i confini a tutti quei dissidenti, disobbedienti, semplici non allineati desiderosi di uscire – di scappare una volta per tutte dall’inferno della patria – altri mostri del cielo scaldavano i motori in un assordante rombo di morte.
La tragedia dei desaparecidos, gli uomini e le donne che non avendo imparato a volare si arresero alle legge di gravità come ci si sottomette alla brutalità di un regime. Semplicemente spariti, scomparsi, inghiottiti una volta per tutte nella stessa parola che dovrebbe identificarli, riportarli allegoricamente in vita.
Non ci furono salme su cui piangere o tribunali ai quali appellarsi, album di fotografie o filmati in Super8; niente Bibbie o estreme unzioni, funerali di stato e commemorazioni, nella maggior parte dei casi si persero anche le parole di quei pochi che avevano visto o sentito – proprio perché avevano visto troppo o sentito il vero.
Restano dei miseri frame, per lo più immaginati, inventati, che ritraggono l’ultima caduta dei vari Josè, Martin, Sofia, Javiera, Pablo, Francisca, Florencio, Belen, Augusto e Paloma verso le profonde e accoglienti acque dell’Atlantico e quelle del Rio de la Plata. Gettati dall’alto già mezzi cadaveri, sotto l’occhio di un Dio che si dimostrò ancora una volta troppo miope o insensibile agli umani destini. E sembra quasi di vederli questi pupazzi di carne viva annaspare nell’aria durante l’ultimo salto, così identici a quelli che si lanciarono dalle Twin Towers l’11 settembre 2001 nell’estremo gesto di vile dignità concesso ad un uomo.
Se questa fosse una favola ci sarebbe una morale della quale rallegrarsi, dalla quale trarre sostegno, un insegnamento degno o magari anche solo un lieto fine.
Ma tanti, troppi di questi undici settembre dovremmo guardare in faccia prima che la realtà si faccia favola.
Francesco Floris