Del: 4 Dicembre 2013 Di: Redazione Commenti: 0
Frank

Esattamente vent’anni fa moriva Frank Zappa, “compositore americano”—come egli stesso amava definirsi, in un modo che, appartentemente semplice, nasconde un’ambivalenza non casuale: chi conosca la sua opera, così vasta e poliedrica, ne ricaverà l’impressione di un’ostentata modestia; ma chi dovesse averne una conoscenza superficiale potrebbe addirittura percepire un vago oltraggio. “Compositore” è infatti un termine che tendiamo ad associare alla musica “colta”, piuttosto che al rock o al pop. Zappa, profondo odiatore delle etichette e sistematico dissacratore, rivendica per sé questo titolo, consapevole del contrasto che instaura con l’immagine – ben nota, forse più della sua musica – di chitarrista pseudo-hippie capellone e sboccato. D’altra parte, al di là della provocazione formale, si vede nella parola anche tutta la serietà con cui Zappa viveva il proprio mestiere: di compositore, appunto; né chitarrista, né cantante, né genericamente musicista. Non è una desacralizzazione della musica classica, né un’elevazione del rock o del pop (o di quant’altro) all’alveo della musica “colta”, ma piuttosto l’affermazione dell’equivalenza di tutti i generi musicali, da cui deriva la volontà programmatica di trattarli, tutti, con la stessa autorità di un Beethoven o di uno Stravinsky.

Coerentemente con quest’idea, Zappa non faceva molta differenza tra un’orchestra e un gruppo rock, a costo di riceverne qualche fastidio. Per esempio, nel 1967, durante le sessioni dell’album Lumpy Gravy, alcuni membri dell’orchestra scritturata per l’occasione si rifiutarono, in un primo momento, di suonare le proprie parti, convinti che Zappa fosse solo una specie di rocker lunatico. Viceversa, rischiò di essere cacciato via dal suo primo e storico gruppo, le Mothers of Invention, perché era l’unico a non fare uso di droghe – calatevi nel contesto: California, fine anni ’60, musicisti freak. I rapporti conflittuali con i musicisti saranno in effetti una cifra costante di tutta la sua carriera, a causa della vocazione autoritaria, quasi tirannica, da direttore d’orchestra più che da frontman: maniaco perfezionista, faticava a trovare strumentisti capaci di suonare la sua musica (che è piuttosto complicata) esattamente come la voleva lui; odiava i protagonismi e le note fuori posto. Per questo, poi, negli anni ’80 utilizzò entusiasticamente il synclavier, una specie di sintetizzatore a cui finalmente poteva comandare cosa fare e come farlo, senza scomode interferenze umane.

Nella vastissima discografia di Frank Zappa (62 album rilasciati in vita e 34 postumi) si trova di tutto: dal freak rock psichedelico delle origini fino all’elettronica sperimentale, passando per la contemporanea orchestrale e il rumorismo in stile John Cage. E soprattutto si trova onnipresente l’umorismo, sia nei testi che nelle musiche, talvolta dal lato della satira, più spesso da quello del nonsenso. A cercare di catalogare una simile produzione si rischia di frammentarla, perdendo di vista la profonda unità ideale sottostante. Bisogna innanzitutto prendere atto della concezione forte e pienamente “contemporanea” che Zappa aveva dell’opera d’arte: atto insindacabile dell’individualità creatrice, tutto ciò che rientri in una cornice convenzionale può essere arte, e così tutto può essere musica. Ecco com’è possibile coniugare l’estrema serietà del compositore classico con la comicità, il dadaismo, il rumorismo, il rock, il jazz – e qualsiasi altra cosa.

Mai toccato da un pieno successo commerciale, Zappa ha attraversato come da dietro le quinte i decenni d’oro della musica leggera occidentale. Il suo più vistoso contributo sta nella carica emancipatoria della sua irriverenza musicale, ma c’è molto altro: chitarrista brillante, assiduo sperimentatore, è stato pioniere della psichedelia, della fusion e dell’elettronica, nonché delle tecniche di registrazione e di editing più avanzate: faceva un uso massiccio di sovra-incisioni e sfruttava appieno la tecnologia multitraccia, per ottenere un “prodotto finito” il più vicino possibile all’idea astratta iniziale.

Ma alla base dell’intera esperienza artistica di Zappa, non solo musicale, si trova un sistema di pensiero lucido e coerente, che abbraccia e interpreta in modo originale l’intero quadro della società contemporanea. Per questo non solo è riduttivo definirlo “compositore”, ma pure, più genericamente, “artista”. Fu sempre un fiero avversario delle istituzioni culturali egemoniche, dalla scuola alla religione organizzata, dalla radio alla televisione; nemico di ogni dogmatismo e censura, violento critico del costume, del conformismo e del consumismo dei propri connazionali. Per questo, personaggio sempre “scomodo”: celebre il suo duro intervento al senato americano, nel 1985, contro la PMRC di Tipper Gore (moglie di Al), che spingeva per l’apposizione del famoso bollino “Parental advisory” sui dischi che avessero contenuti “espliciti”.

In definitiva, Zappa rappresenta la figura di un intellettuale esemplare: votato all’indipendenza, mai disposto al compromesso, mai schiavo del pubblico e del mercato, sempre libero, autonomo e spregiudicato. Ma ad un’individualità così spiccata fa da contraltare anche un’umiltà che non va dimenticata: la si vede nell’ostilità a qualsiasi forma di divismo e, da ultimo, nella volontà di non far segnalare da alcuna lapide la propria sepoltura.

A vent’anni dalla morte, la sua lezione è quanto mai viva.

Sebstian Bendinelli

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