Del: 17 Dicembre 2013 Di: Redazione Commenti: 0
 

Matteo Renzi, 38 anni, sindaco di Firenze, neo-segretario del Partito Democratico al seguito della vittoria conseguita l’8 dicembre con circa il 70% dei voti; il suo appellativo è “Il Rottamatore”, sulle sue insegne scrive le parole al contrario per interpretare graficamente questa sua spinta etico/politica.

Nel 1994 un imprenditore milanese, emergeva dalle lande briantee per prendere le redini di una politica dilaniata da Tangentopoli e decidere il destino politico del paese per il successivo ventennio. Il suo nome è Silvio Berlusconi, e la sua carriera politica iniziò con un glorioso discorso che ricorda per vaghezza, belle parole e nullità, proprio il lessico del nuovo volto della sinistra italiana.

Dal mezzobusto rassicurante e colmo di speranza, uscivano allora queste parole: “L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà.” Iniziamo dunque da dove è lecito: le radici. Il padre di Matteo è Tiziano, democristiano e detentore della comunicazione giornalistica-pubblicitaria toscana mediante l’azienda Chil Srl. Qui inizia a lavorare e a prepararsi alle calorose arringhe pompose e vuote con cui anima i congressi oggigiorno. Dunque inizia sulla scia del padre, non solo a titolo d’ispirazione ma più propriamente di porte aperte, albori di nepotismo qualcuno li chiamerebbe.

Si aggiunga a ciò quanto attestato dal suo biglietto da visita: ”É dirigente d’azienda: nel 1994 ha fondato la Chil srl, (…). In Chil si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutta Italia”.

Punto politico comune lo si riscontra nella volontà di non voler “vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare.” Liberalità dunque, liberalità dei mercati e privatizzazioni da un lato, con l’accettazione, parziale, in questo senso dell’agenda Lettiana. Persino il giornale politicamente filo-Berlusconiano annuncia in un sondaggio ”Renzi è troppo liberale. Al Pd lo odiano, voi lo vorreste nel Pdl?”. Un conto è sentirselo dire da Travaglio, ma da Belpietro è altro paio di maniche.

Sempre seguendo il discorso dell’ex-Premier, un tassello delicato: “Per poter compiere questa nuova scelta di vita, ho rassegnato oggi stesso le mie dimissioni da ogni carica sociale nel gruppo che ho fondato”. L’oggetto in analisi è un altro e dunque non mi soffermerò sul fatto che dal ’94 ogni cosa è divenuta di suo dominio come ben ci ricorda la canzone di Benigni; piuttosto preme sottolineare come Renzi non sia nemmeno disposto a lasciare il ruolo da sindaco di Firenze. Il fatto acquista rilevanza in quanto incarna con ipocrisia quell’attaccamento poltronistico da lui, giustamente, tanto osteggiato.

“Ho anche la ragionevole speranza di riuscire a realizzarlo, in sincera e leale alleanza con tutte le forze liberali e democratiche che sentono il dovere civile di offrire al Paese una alternativa credibile al governo delle sinistre e dei comunisti.(…) Quegli obiettivi e quei valori che invece non hanno mai trovato piena cittadinanza in nessuno dei Paesi governati dai vecchi apparati comunisti, per quanto riverniciati e riciclati.”

Si riscontrano poi altri aspetti importanti di comunanza: l’appartenenza a un’ Europa cui guardare, se nel Cav era “proporre anche ai cittadini italiani gli stessi obiettivi e gli stessi valori che hanno fin qui consentito lo sviluppo delle libertà in tutte le grandi democrazie occidentali” con Renzi ha un nome definito : Stati Uniti d’Europa che renda la crisi un’opportunità: le parole son sue, le opportunità non so di chi.

Ancora poi il rimando a quel “mondo cattolico che ha generosamente contribuito all’ultimo cinquantennio della nostra storia unitaria”, in arte DC, in mafia Andreotti; che se don Sturzo vedesse altro che rigirarsi nella tomba. Parimenti troviamo un’adesione alla” tradizione cattolico-democratica è linfa vitale per il Pd e negarlo o dimenticarlo è sbagliato ed è un pericolo” ovvero quanto detto precedentemente.

Di poi la volontà di proporre, concretamente, azioni politiche tempestive e mirate che permettano intese, se Forza Italia nasceva con “l’obiettivo di unire, per dare finalmente all’Italia una maggioranza e un governo all’altezza delle esigenze più profondamente sentite dalla gente comune.” Renzi va a caccia di voti da Grillo e da Berlusconi, “per semplice logica” (ma non si chiamava opportunismo?).

Giungiamo ora al punto in cui l’allievo supera il maestro: la fine delle sinistre e dei comunisti: “Finiti gli inciuci. Questa è la fine di un gruppo dirigente” così apre la vittoria dell’8 dicembre. Rottamazione contro gli eredi dell’ex PCI (D’Alema, Veltroni, Bersani, Bindi) e dei sindacati che definisce “pieni di soldi”e che “non tutelano i giovani”. Contro Bersani porgerà parole di offesa delineando il suo agire come un’”Evoluzione della sua militanza e della sua storia personale, una sorta di nuovo Pci”. Pura pazzia per quel bischero che il PD segua le orme di ciò da cui deriva.

Renzi è insomma riuscito, in un’esperienza politica irrisoria rispetto a quella berlusconiana a sconfiggere definitivamente i nostalgici rossi, e lo ha fatto magistralmente dall’interno penetrando nelle roccaforti della sinistra.

Coincidenza storica a riguardo: l’8 dicembre 1991 a Mosca è siglato l’atto di liquefazione dell’Unione Sovietica Comunista.
“Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano.” Speriamo che perlomeno l’aggettivo nuovo non l’abbia imparato da lui.

 Mattia Gennari

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