L’annoso dibattito sul modello elettorale da adottare in questo Paese per garantire allo stesso tempo “governabilità” e “rappresentanza” lascia il tempo che trova dinnanzi al suo perpetuo ripetersi negli anni, ogni volta così identico a se stesso.
Modello spagnolo con sbarramento alla tedesca corretto grappa e premio di maggioranza per chi dimostra di non averne una, doppio turno alla francese e bacio accademico con lingua in bocca al nuovo premier.
A inizio gennaio il neo eletto segretario del Pd Matteo Renzi aveva dichiarato che per fare la legge elettorale bastavano sette giorni – prospettiva alquanto ottimistica che puzzava di presa per i fondelli con tanto di pernacchia; a oggi di giorni ne sono passati una quindicina e sullo sfondo delle redivive larghissime intese con il Silvio nazionale, si colgono solo “profonde sintonie”, espressione talmente melensa da far inorridire anche il più romantico fra i poeti tedeschi del diciannovesimo secolo.
Per il momento Matteo Renzi è riuscito nella fantasmagorica impresa di risollevare Silvio Berlusconi dalle acque fangose nelle quali navigava assieme alla rinata Forza Italia, ponendolo al centro della scena politica, in nome di un presunto dialogo costruttivo volto a stabilire le “regole del gioco”.
Quando toccò a Silvio Berlusconi stabilire le stesse regole del gioco a cavallo fra il 2005 e il 2006, il Porcellum venne approvato in tre mesi a colpi di maggioranza Forza Italia-An-Lega Nord-Udc, sbattendosene di fatto della partecipazione delle forze di opposizione presenti in Parlamento all’epoca.
Che con Berlusconi si potesse ancora trattare, se non per interposta azione del proprio legale di fiducia, è un’idea che alla presunta sinistra italiana è costata la pelle già diverse volte: la bicamerale sul finire degli anni Novanta, il tavolo per le riforme costituzionali del 2007 – esattamente identico a quello che va profilandosi in questi giorni – voluto da Walter Veltroni e che costò la vita al secondo governo Prodi, l’alleanza pro-Monti che ha portato ai risultati elettorali che conosciamo, fino all’ultima immobilista esperienza del governo Letta.
Il giorno dopo la decadenza da parlamentare di Silvio Berlusconi a decine fra gli esponenti del Pd accorsero ai microfoni delle televisioni per urlare la propria gioia: finalmente il governo non sarebbe stato ostaggio delle esigenze personali di un capopopolo pregiudicato e si sarebbe potuto occupare dei problemi del “Paese reale”.
Arrivava il fatidico momento di ingranare la marcia, la “fase due”, le riforme strutturali, le riduzioni d’imposta finanziate da improbabili tagli di spesa improduttiva, la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, la messa in sicurezza del territorio – insomma uno scenario da giardino dell’Eden della cosa pubblica dove ogni burocrate sarebbe vissuto in armonia con gli altri esseri del creato, elettori inclusi.
Sono passati solo pochi mesi da quei mirabili annunci di stabilità durante i quali Renzi è diventato il nuovo segretario al grido di “basta con la politica degli inciuci, degli accordi sotto banco, degli ammiccamenti fra vecchi volponi”; il sindaco di Firenze avrebbe finalmente fatto dimenticare gli errori della precedente classe dirigente silurando una volta per tutte il gemello-nemico giurato di Arcore e, non si sarebbe mai permesso di tradire il mandato degli elettori come avveniva regolarmente con i politicanti del nostro mesozoico amministrativo.
Deve essere in nome di questi nobili principi che sabato ha deciso di rispolverare le armi della vecchia politica incontrando il “decaduto” nella sede del Partito Democratico a largo del Nazareno, per discutere niente di meno che della riforma del titolo V della Costituzione e di sistemi elettorali vigenti nelle circoscrizioni della Via Lattea.
Come copione, dopo l’incontro di sabato pomeriggio, durante la conferenza stampa indetta per le 19:00, l’unico ad esporsi è stato Matteo Renzi parlando di punti di contatto e sintonie fra il Pd e Forza Italia e fra i due rispettivi segretari. Alla solita maniera Berlusconi si è sottratto alle domande della sala stampa sgattaiolando dal retro quatto quatto – come sempre si mostrerà alle telecamere solo quando vi saranno accordi, proposte, risultati (veri o presunti) da spendere in termini elettorali.
Davanti ai giornalisti Renzi è sembrato addirittura diverso dal solito, ingrigito in volto, meno brillante: sono finiti i bei tempi in cui bastava presentarsi da Fazio a dire banalità in inglese per ricevere sulla carta stampata agiografie degne di San Francesco e scrosci di applausi in studio o nelle piazze; ha dovuto scoprire troppo in fretta che la pazienza dell’elettore medio ha una durata di poco superiore alla batteria dell’iPhone5 – da rottamatore eroico acclamato dalla base si è dovuto reinventare politico della vecchia guardia, con tutte le responsabilità in negativo che ne conseguono.
Questo sarebbe avvenuto anche in condizioni normali e non solo a Matteo Renzi, ma a qualunque altro esponente che si fosse fatto reggente temporaneo del partito; il fiorentino ha però aggravato la propria posizione decidendo, a poco più di un mese dalla sua consacrazione, di incontrare e intavolare una discussione con l’avversario di una vita – Silvio Berlusconi – prestando peraltro il fianco a quell’ala del partito che non è affatto convinta della bontà delle ricette renziane e che ne ha sempre denunciato la subalternità culturale rispetto al berlusconismo.
Renzi si ritrova oggi con almeno tre problemi: governare il partito con fermezza sfuggendo alle accuse di dispotismo politico, trattare con Forza Italia (per sua volontà, non per imposizioni esterne) evitando di prendere colossali fregature dal piazzista più spregiudicato d’Italia, tenere in piedi il governo Letta e possibilmente costringerlo a fare qualcosa – qualunque cosa – per non essere accusato di incapacità e negligenza.
Il richiamo delle urne è sempre più forte e il consenso acquisito in autunno si erode ogni giorno che passa, ma far crollare il governo Letta significherebbe ammetterne il fallimento – come anche quello della maggioranza che l’ha sostenuto – e tradire buona parte dei propri compagni di partito che nel governo hanno ruoli istituzionali oltre che i desideri del Presidente della Repubblica.
Dentro questo quadretto tutt’altro che soddisfacente – al solito – il terzo gode: Silvio Berlusconi si riprende parte del potere di contrattazione politica che gli era stato usurpato da Alfano e dalla arcinote “toghe rosse”, carica le munizioni per la campagna elettorale delle europee prossime venture e si tiene in disparte, pronto a sgusciare fuori dal cespuglio nel momento propizio.
Nel 2013 pareva ci fossimo liberati di lui per sempre – era poca cosa dinnanzi agli assillanti problemi economici della quotidianità politica ma dava un parziale senso di soddisfazione – e al solito avevamo sottovalutato le capacità taumaturgiche dei presunti salvatori-rottamatori che di tanto in tanto si affacciano sul cielo d’Italia.
Con la mossa dell’altro giorno Matteo Renzi è come se avesse fissato dritto negli occhi il cadavere politico di Berlusconi per lunghi istanti e avergli infine sussurrato nell’orecchio: “Silvio, alzati e cammina”.
Per il momento è questo l’unico successo che può vantare la nuova segreteria democratica – aver donato la vita chi non ne aveva più una – per quanto riguarda tutte le altre mirabolanti promesse, meglio aspettare ancora qualche settimana prima di stappare lo Champagne: il Job Act, nella sua formulazione-bozza non possiede le coperture necessarie per essere sviluppato in tutti i punti, dall’assegno universale agli sgravi sui costi energetici per le aziende; la legge elettorale per il momento è un incrocio fra il catalogo vacanze di un’agenzia di viaggi e il Risiko.
Tutto il resto – coppie di fatto, matrimonio gay, taglio del cuneo fiscale, green economy, piano di investimenti pubblici in ricerca e formazione – è un lontano punto all’orizzonte di cui non si colgono i confini, potrebbe addirittura essere un’illusione ottica.
La Seconda Repubblica è dura morire e sembra pronta a dare battaglia ai propri detrattori e, se necessario, trascinarli con sé nella tomba. Arriveranno comunque prima o poi dei nuovi salvatori fiorentini a riportare in vita i mostri del passato – perché ogni rottamazione è anche un atto di creazione.
Francesco Floris