
La notte dell’11 gennaio 1999, ore 02:30, Fabrizio De André si spense all’età di 58 anni presso l’Istituto dei tumori di Milano, dove era stato ricoverato con l’aggravarsi della malattia che lo aveva costretto ormai da mesi ai piedi del palco della sua vita. Si spegneva lasciando un vuoto assoluto dietro di sé, un vuoto nel mondo della musica e dell’arte italiane.
Perché Faber, come amava chiamarlo l’amico Paolo Villaggio –per via del suo amore per i pastelli Faber-Castel– non era semplicemente un cantante, ma un poeta capace di intrappolare emozioni, decriptandole con maestria su un semplice foglio di carta, nell’inchiostro scuro della penna, per regalarle a ciascuno di noi.
Spesso partiva da un’intuizione o da una frase, forse letta in uno dei libri che amava divorare, e dopo averne trasposto il significato in metafora, vi costruiva sopra una melodia, una canzone, con lo scopo di passare il messaggio che lo aveva colpito.
“Questo è il punto: lui era l’unico poeta della canzone d’autore. Gli altri, me compreso, con l’eccezione forse di Guccini, sono bravi, non poeti. E i suoi testi sono gli unici che reggono anche senza musica. […] Non è assolutamente per tutti. Il suo era un elitarismo culturale. Aveva il fisico e la testa del poeta. Non aveva bisogno di mettersi in una torre d’avorio: in quella torre ci era nato.”
Così lo definiva Roberto Vecchioni, amico di una vita e collega di Fabrizio, in un’ intervista al Corriere della Sera qualche giorno dopo la sua scomparsa.
I 13 album pubblicati lungo la sua quarantennale carriera raccolgono canzoni entrate a far parte della storia di molti di noi, dalla melodia a volte semplice, è vero (semplicità per cui subì numerose critiche ), ma certamente unica e toccante―anche grazie alla sua passione per la sperimentazione e l’uso di strumenti mediterranei e medievali.
A renderlo unico furono il suo coraggio, la sua ostinata coerenza nel cantare gli emarginati –protagonisti della sua musica non nella loro esperienza di vita, ma nella loro essenza di uomini– partendo proprio dal ghetto in cui aveva mosso i primi passi e in cui aveva imparato a conoscer la vita al di là della sua apparente normalità.
Anche oggi, a quindici anni dalla sua scomparsa, i suoi ascoltatori aumentano di giorno in giorno, fulminati dalla sua poesia, per un breve periodo o per tutta la vita. Perchè aveva perfettamente ragione Piovani nel dire che “De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per definizione, passa.
Le canzoni di Fabrizio restano”.