Sono molti i modi per comprendere un’opera letteraria, come scriveva Abraham Yehoshua, scrittore e drammaturgo israeliano. Egli individua tra i più efficaci quello di “analizzarne la trama prendendo in esame soprattutto la sua parte conclusiva, vale a dire l’obiettivo che l’opera si propone di raggiungere. Un’opera letteraria ha una struttura chiusa –un inizio, una parte centrale e una fine– e dovrebbe presentare le caratteristiche di un insieme organico.”
Anna Karenina di Lev Tolstoj, uno dei capisaldi della letteratura mondiale, romanzo russo ottocentesco, ricco di temi e riferimenti storici, è arduo da riassumere in modo esaustivo. E a mio parere è anche rischioso schematizzare la trama , scandendone i risvolti cronologicamente. Mi permetto dunque di dissentire da Yoshua. Tranquillizzo il lettore, in quanto non mi preme qui, in poche righe, svelare il finale del romanzo, procurandomi l’antipatia di quanti fanno della curiosità uno dei moventi all’azione.
Piuttosto, vorrei invitare a esaminare come un romanzo, e in questo caso non uno qualunque, non porti ad una conclusione. Sicuramente la fine esiste. Ma ne segna un inizio. Il lettore puó comporre le sue riflessioni e portarle a termine, ma deve tener conto che quello che ha letto è solo una parte dello sconfinato mondo dell’autore. E quanto più pensiamo di poter dire, lo dobbiamo alla capacità narrativa dello scrittore che, consapevolmente o meno, ci ha guidato. Il lettore è un critico, che mette alla prova il suo autore, continuamente.
Ci sentiamo un po’ come Anna in uno stato d’animo di incertezza: «Veniva continuamente sopraffatta dal dubbio che il treno stesse andando all’indietro o in avanti o fosse fermo. Era Annuška quella che stava accanto a lei? O era un’estranea? Cos’è quella cosa sul bracciolo, una pelliccia o un animale? E io chi sono, sono io o sono un’altra?»
La grande opera letteraria fa questo. Mette in discussione. Imprime storie sulla carta, dipinge caratteri, lascia dubbi. Provoca assenso e dissenso. Crea schieramenti, linee di pensiero. E in Anna Karenina lo schieramento è ben evidente nei due amori che Tolstoj mette in scena parallelamente. Le due storie si fondono, si moltiplicano per poi incontrarsi di nuovo. Possiamo schierarci, possiamo restare neutrali. Possiamo rileggere il libro e le nostre opinioni restare le stesse. Oppure no. Anna Karenina non finisce, non chiude la sua storia entro le sue pagine. È una di quelle opere cui ad un finale corrispondono molteplici punti di partenza. Il romanzo, sempre aperto a nuove interpretazioni, è aperto anche a diverse trasposizioni. Ad esempio cinematografiche.
Qualche considerazione a riguardo puó essere portata avanti per Anna Karenina, film uscito nel 2012, del regista Joe Wright. La pellicola ha creato due fazioni. Da un lato abbiamo i sostenitori del grande romanzo ottocentesco, fedeli allo scrittore, che non vedono ben interpretato il carattere di Anna, nella magrissima Keyra Knightley: la considerano inappropriata per il ruolo e quasi vittima della scena.
Dall’altro, di ispirazioni più moderne, vi sono invece coloro che, incuranti delle sinuose descrizioni di Tolstoj, vedono il film quale un capolavoro di regia dove la scenografia, costituita proprio da un teatro, diviene protagonista. Quasi a proiettare un’intera società, quella russa, direttamente su un palcoscenico, per evidenziarne gli sviluppi tra autenticità e ipocrisia.
Un merito indiscusso va ai costumi, candidati agli Oscar: scelta accurata dei particolari e spettacolarità scenica colpiscono il pubblico e lo circondano di quel fascino russo, che ha colpito noi e l’Europa ben prima di questo secolo.
Alessandra Busacca
@AleBusacca1