Comprare un libro in base alla copertina è un’azione spesse volte complicata. Non solo per l’avarizia del lettore colto medio (che giustificheremo agevolmente, e anzi innalzeremo a virtù, grazie al periodo di crisi), ma soprattutto perché ciò potrebbe minare l’immacolata reputazione del suo status culturale. Insomma, conosciamo tutti i temuti (e in verità solamente immaginati) sguardi del vegliardo sdegnoso che fruga al nostro fianco gli scaffali della Feltrinelli, e di cui esorcizziamo preventivamente l’onta guardando con un sorriso beffardo chi acquista l’ultimo bestseller edito da Mondadori.
Perciò ci si ritrova spesso a leggere o libri consigliati da conoscenti stimati o dall’indiscusso status qualitativo, per quanto a volte questo sia immeritato, ma non è la sede adatta a disquisirne; e ciò soprattutto perché il prestigio dei critici di mestiere e l’accessibilità ai loro giudizi sono venuti meno, per motivi che, ancora una volta, non saranno disquisiti in questa inadeguata sede.
Di che cosa, dunque, disquisiremo? È presto detto: del libro che l’autore di questa modesta recensione ha acquistato in barba ai suddetti ostacoli, e letto con gusto. Non perché ne sia immune, ma in quanto si trovava ad avere le bastevoli garanzie che elencheremo dopo i due punti: libro usato venduto a metà prezzo (il che gratifica la sua poco nobile micragna); edizione Adelphi nella collana Piccola Biblioteca (e dunque dalla copertina standard non identificabile da un colpo d’occhio, probabilmente astigmatico, del vegliardo di prima); titolo altisonante e latineggiante (Egnocus e gli Efferati); autore sconosciuto (Fabrizio Dentice, che Wikipedia vi dirà essere “un compositore, liutista e gambista italiano” del Cinquecento, ma che in realtà è giornalista di cronaca culturale per «L’Espresso» che ha scritto questo suo primo libro nel 1987, come vi dirà la seconda di copertina, oppure una approfondita ricerca su Google).
In questo dissertare siamo però stati troppo severi e ingiusti nei confronti dell’artefice del nostro articolo, che per ora è apparso agli occhi dei lettori come una macchietta, un meschino e insicuro studentello figlio della società dell’apparire (o tempora, o mores!), quando in realtà ne è solo vittima involontaria; e non abbiamo dunque parlato, per privilegiare una più accattivante narrazione grottesca e umoristica, della sua primaria attenzione durante l’acquisto, che, come si è detto, riguardava sì la copertina, ma più esattamente la sua quarta parte. Questo perché il nostro autore, a quanto pare a differenza di molti lettori moderni, basa i suoi acquisti sui giudizi critici, e ciò non solo per solidarietà professionale.
Il testo contenuto nella quarta di copertina potete agevolmente leggerlo sul sito della casa editrice Adelphi senza che venga riportato qui; ma per quelli più pigri tra i lettori, che comunque asseconderemo nel loro vizio, riassumeremo brevemente il punto di partenza della trama.
Egnocus, il protagonista, è un bambino che vive nel Luogo, una non altrimenti nominata località del Tigullio che però l’autore di questa recensione, abituale frequentatore di quelle coste, ha riconosciuto essere Sestri Levante; sta per essere rapito, insieme ad altri due bambini, dagli Efferati, dei malviventi che educatamente inviano delle lettere alle famiglie per annunciare il loro proposito, e proporre un pagamento anticipato per evitarlo. Egnocus, che dalla sua ha la capacità di poter comunicare con gli animali, decide di risolvere la vicenda per conto suo, senza informare i genitori; ma la sua vicenda personale si aggroviglia inestricabilmente ai contemporanei sforzi dei numerosi altri personaggi che si troveranno ad essere coinvolti nel rapimento, e che sono di fatto coprotagonisti della trama.
Con una gamba da una parte e una dall’altra di un labile confine tra cronaca e favola, la narrazione affianca una forte suggestione realistica a continue impennate nel fantastico, secondo quello che più che altro è un gioco letterario. È infatti evidente, ed evidenziata espressamente dal suo autore, la trama metaletteraria che soggiace al testo; evidentissima nel caso di capitoli come il IV, il V e il VI, basati, come appunto esplicitato dal testo stesso, rispettivamente sull’uso del presente storico, di un tono aulico e di uno invece molto semplice e schematico.
Ciò che ne risulta è, alla lettura, la sensazione di un pastiche di toni, temi e citazioni vere e proprie, che per essere apprezzato pienamente necessita di fatto di una certa dimestichezza con gli studi letterari. Se sono infatti evidenti i giochi di quella che chiameremo dialettica imperfetta, ovvero di un ondeggiamento senza equilibri o sintesi, tra il genere del giallo e della favola, tra il punto di vista infantile e quello adulto, ma anche tra le varie linee narrative o tra la compiutezza o meno delle stesse, meno evidenti e dunque non pienamente godibili possono essere le suggestioni tutte letterarie che soggiaciono ai vari personaggi, anche se sempre segnalate da indizi, come nelle immagini dannunziane che profilano il personaggio di Claudia Girifalco nel cap. VI, o nelle varie citazioni erudite che accompagnano i passi in cui la focalizzazione è sul professor Pandolfini, o anche, in modo più generale, il tono “iberico” di tutta la vicenda; e con ciò intendiamo dire che, come esplicitato dalle continue citazioni di opere letterarie di lingua castigliana, è evidente a chiunque non ne sia del tutto digiuno che il tono comico e realistico, seppur grottescamente esasperato fino a sconfinare in un fantastico di derivazione letteraria, sia mutuato dalla letteratura iberica, di cui esso è cavallo di battaglia sin dai tempi dell’Arciprete di Hita. D’altro canto questa complessità strutturale non è certo aiutata dall’uso continuo dell’entrelacement, che pure concorre a creare un clima di continua attesa che rende frenetico il ritmo di lettura.
Si tratta insomma di un ottimo libro per letterati; ci sia consentito in questo senso di paragonarlo alle opere giovanili di Tommaso Landolfi. È questo il suo limite e pregio al contempo, soprattutto da un punto di vista editoriale, visto che la qualità, soprattutto trattandosi di un’opera prima, è indiscutibile, minata giusto qualche goffa tortuosità nell’accavallamento delle vicende; ma se anche voi, come l’autore della modesta recensione che avete letto, guardate con quel sardonico ghigno gli espositori dell’ultimo libro di Fabio Volo all’ingresso delle librerie, non sarete certo alla ricerca di piaceri semplici e immediati; e se, in questo ancora a lui consimili, non riuscite comunque a prendere del tutto sul serio ciò che in fondo è un’arte d’intrattenimento, rileggendo per la prima volta questo libro, forse immeritatamente tanto sconosciuto, riuscirete a saziare godibilmente le vostre fauci. E allora è probabile che vi troviate a volere, come lui che l’ha recensito, rileggerlo anche per la seconda volta.
Stefano Santangelo
@sfnsnt