Le proteste di Piazza dell’Indipendenza (Maidan) a Kiev sono cominciate il 21 novembre come manifestazione pro-UE, in vista del Vertice di Vilnius1 tenutosi il 28 dello stesso mese; e si sono espanse a macchia d’olio in quasi tutta l’Ucraina dopo la decisione di Yanukovich di rimandare il vertice e firmare un ben più lucrativo accordo ― da 15 miliardi di dollari ― con la Russia di Putin.
Dal 30 novembre si è assistito ad una escalation di violenze, costata la vita ad “almeno” 82 persone (tra civili e forze dell’ordine); una vera e propria guerra civile che ha portato il movimento Euromaidan ― così è stato chiamato dai giornali occidentali ― a ottenere la scarcerazione dell’ex Primo Ministro Julia Timoshenko, la deposizione (e la fuga) del Presidente Yanukovich e un governo ad interim presieduto da Oleksandr Turchynov in vista di nuove elezioni a maggio.
Messa così, la nuova rivoluzione arancione sembra essere stata coronata da un successo. In realtà, i problemi veri cominciano ora.
Per capire quale futuro attede l’Ucraina, però, dobbiamo fare un passo indietro, tornando a parlare proprio di quella Rivoluzone Arancione che nel 2004 aveva anch’essa riversato per le strade centinaia di migliaia di cittadini indignati e desiderosi di un cambiamento.
La Rivoluzione Arancione
Con questo termine si indica il movimento di protesta nato all’indomani delle elezioni presidenziali del 2004, che videro la vittoria, contestatissima, di Viktor Yanukovich (sempre lui), leader del Partito delle Regioni―di centro e russofono―su Viktor Jushenko e il suo partito Nostra Ucraina―di centrodestra e conservatore. Dopo la denuncia della Corte Suprema e tre turni elettorali, Jushenko fu dichiarato Presidente e Julia Timoshenko (leader di Patria, centrodestra europeista) Primo Ministro.
Quella che sembrava essere una grande svolta ad Ovest, per un governo più democratico e meno corrotto che cercava disperatamente di sottrarsi all’influenza russa, si arrestò subito: l’8 settembre 2005 la Timoshenko fu costretta a dimettersi per i continui scontri con gli altri membri dell’esecutivo e con Jushenko stesso; nel 2011, inoltre, sarà arrestata per malversazione di fondi pubblici (ma questa è una parentesi troppo lunga per essere aperta).
Si tennero nuove elezioni parlamentari, che videro l’antitetica compresenza Yanukovich-Jushenko come premier dall’ agosto 2006 al dicembre 2007, e la Rivoluzione Arancione ―di fatto conclusasi nel 2005― terminò ufficialmente con le elezioni presidenziali del gennaio 2010, che videro la vittoria di Yanukovich (ancora lui).
La grande speranza di cambiamento venne delusa.
La mia insistenza sui termini “sempre” e “ancora” non è casuale. È la stessa che uso quando parlo di Berlusconi, e un certo paragone tra i due può essere fatto. Sono entrambi oligarchi ricchissimi, espressione di un sistema profondamente sbagliato e corrotto. Certo, tra le tante accuse imputate a Berlsuconi manca quella di strage―quindi tutto considerato a noi è andata meglio.
Il punto del discorso però è chiaro: Yanukovich è l’espressione di un sistema, un sistema ben radicato che può subire uno scossone, arretrare di un passo, ma non per questo cadere.
Dimesso un Papa, se ne fa un altro.
Il futuro che non c’è
In questo scenario a dir poco precario, che futuro aspetta l’Ucraina?
Il futuro che vogliamo
Il futuro per cui si è battuta Euromaidan è limpido: una riforma costituzionale della legge elettorale che porti a un governo più democratico, con un Parlamento più forte e un Presidente più debole, un’apertura decisa verso l’Unione Europea in vista dell’integrazione e un netto ridimensionamento dell’ingerenza russa nell’economia del Paese.
[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=Hvds2AIiWLA[/youtube]
“I am a Ukrainian”, il video-appelo è diventato virale in poche ore.
Il futuro che vogliono
Non tutti però approvano questo progetto. E non mi riferisco solo a Putin e all’Unione Europea ma anche a una buona fetta di cittadini ucraini dell’Est e della Crimea, zone storicamente filo-russe che non hanno partecipato (quando non si sono opposte) alle proteste degli ultimi mesi; a questi si aggiungono i potenti oligarchi dell’energia, che alle norme severe della Merkel preferiscono l’indifferenza benevola di Putin.
Il futuro della rivoluzione
Con l’istituzione del governo ad interim la protesta di piazza Maidan si è calmata. Ed è una calma destinata a durare fino alle elezioni di maggio, poi sarà tutto da vedere.
Julia Timoshenko― allo stesso tempo eroina della Rivoluzione Arancione ed emblema del suo fallimento― ha ammesso di prendere in considerazione l’idea di candidarsi il 25 maggio; questo significa che dovrà scontrarsi con i nuovi candidati emersi dalle proteste di questi mesi, il cui unico punto in comune era far cadere il governo Yanukovich; ora che ci sono riusciti la partita è tutta da giocare.
Chi sono i “figli della rivoluzione” da tenere d’occhio:
Vitali Klitschko, 42 anni, campione mondiale di pesi massimi e fondatore del partito Alleanza democratica ucraina per le riforme, il cui acronimo “udar” ‒guarda un po’‒ significa “pugno”.
L’Udar si inserisce nel centrodestra moderato, liberal ed europeista. Sicuramente è l’avversario più forte.
Oleh Tyahnybok, 54 anni, è il leader del partito ultranazionalista Svoboda. Con ogni probabilità perderà le elezioni Presidenziali ma guadagnerà posti in Parlamento, potendo contare proprio sull’ondata di nazionalismo che ha animato le proteste di questi mesi. Da nazionalista convinto, è tanto avverso alla Russia quanto lo è alla Germania.
Arseniy Yatsenyuk, 39 anni, non è un vero “figlio della rivoluzione”, visto che è già stato ministro degli Esteri e presidente del Parlamento, ma è stato un punto di riferimento durante tutta la protesta. Molto probabilmente tra un paio di giorni verrà incaricato dal Presidente Turchynov di formare il governo provvisorio, quindi difficilmente concorrerà alle Presidenziali del 25 maggio (essendo tra l’altro uno dei più forti alleati della Timoshenko).
Dmytro Yarosh, 42 anni, rappresenta il lato più preoccupante della protesta. È lui il leader di Pravy Sektor, gruppo armato di estrema destra che continua ad occupare piazza Maidan e che nei giorni scorsi ha assaltato e distrutto la casa del segretario del Partito Comunista ucraino, Petro Simonenko, appena fuori Kiev.
Pravy Sektor è una frangia troppo violenta per accedere autonomamente al Parlamento ma un’alleanza con Svoboda (che ha il 10% dei seggi) è molto probabile, visto che entrambi condividono un nazionalismo acceso e un antisemitismo preoccupante—tanto che dopo l’assalto di ieri alla sinagoga di Zaporozhie, uno dei rabbini-capo, Moshe Reuven Azman, ha invitato gli ebrei di Kiev a lasciare la città e se possibile anche il Paese, temendo l’inizio di una persecuzione.
Le tensioni etniche, tra ucraini e non ucraini, tra ucraini dell’Est e ucraini dell’Ovest, si fanno sempre più forti.
Due Ucraine?
Sui giornali2 si è menzionata la possibilità di una scissione dell’Ucraina in un Est filo-russo e in un Ovest filo-europeo “indipendenti”.
A uno Stato sull’orlo del default non conviene dividersi — o comunque non converrebbe alla parte occidentale, dato che l’UE a differenza di Putin è poco incline a concedere finanziamenti sull’unghia.
Secondo il parere molto più autorevole della Storia, invece, la scissione non sarebbe un’opzione così impraticabile. Abbiamo avuto tanti esempi: la Corea, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia…ma abbiamo imparato poche lezioni.
Una, però, la sappiamo a memoria: la Storia è destinata a ripetersi.
Gemma Ghiglia
@g_ghiglia
Foto CC–BY Sasha Maksymenko
Note
1 Per evitare ogni confusione, specifico che il Vertice di Partenariato Orientale è un accordo di tipo commerciale e, per quanto incoraggi un’apertura verso l’UE, non include affatto la procedura di integrazione.
2 Tra i pareri più convincenti ―oltre agli appelli di Merkel e Ban Ki-Moon―quelli di Lucio Caracciolo su Limes (http://temi.repubblica.it/limes/lucraina-e-il-fantasma-dei-balcani/58353) e Timothy Garton Ash su Repubblica del 22 febbraio.