Del: 18 Febbraio 2014 Di: Stefano Colombo Commenti: 0

Trentaquattro anni prima che voi leggiate questo articolo, Bon Scott è ancora vivo. E’ il pomeriggio del 18 Febbraio 1980; il cantante degli AC/DC sta organizzando la serata. Chiama la sua ex, non ha mica voglia di farsi un giro con lui? No, gli risponde lei. Pazienza. Sceglie di farsi un giro al Music Machine, un locale di Londra Sud che frequenta occasionalmente, per bere qualcosa.
Quel ”qualcosa” gli sarà fatale. Nella notte, intossicato dall’alcool, Bon Scott muore.
La prima volta che gli AC/DC l’avevano incontrato si stava lamentando perché per sbaglio si era messo le mutande della moglie. Di sicuro, già lì avevano capito con chi stavano per avere a che fare. Ronald Belford Scott era nato a Kirriemuir, in Scozia: non aveva neanche trent’anni, ma era già un sopravvissuto del rock n’roll. Trapiantato giovanissimo in Australia, aveva raccolto meriti negli anni sessanta cantando nei Valentines, una boy-band dall’aspetto così pulitamente adolescenziale che il confronto con la sua immagine successiva da metalmeccanico arrapato e dal brindisi facile lascia esterrefatti:
[youtube]http://youtu.be/t2B8KSDKcIM[/youtube]

(Sì, è quello in alto a sinistra vestito come un idiota.)

Forse non casualmente il successo del gruppo era svanito presto, e Bon si era riciclato in vari modi: cantando in qualche altra formazione, lavoricchiando qua e là, sposandosi. Nell’anno di grazia 1974 si guadagnava il pane facendo da autista per i giovani gruppi australiani – come gli AC/DC, appunto. Mentre guidava, oltre ad informarli sulle proprietà della propria biancheria intima, Bon continuava a fare accenni alle proprie glorie canore. Caso volle che gli AC/DC stessero per sbatterere fuori il cantante Dave Evans proprio in quel periodo. Il destino, signori: tempo due settimane e il nostro uomo saliva definitivamente sul palco al posto dell’insalopettato Evans, il cui sbrilluccicoso scimmiottare Marc Bolan aveva stufato tutti.

Fu un incontro felice e obbligato. La voce grezza e graffiante di Bon si adattava benissimo al rock primordiale e intriso di blues degli AC/DC —un rock in cui non c’era spazio per ballate acustiche, sentimenti platonici e rimpianti non fondati sull’eccessiva tariffa di una nottata. Un rock frenetico, inarrestabile sul palco e martellante su disco: ritmo dritto, un riff su tre accordi e via andare —che altro serve? Un assolo in mezzo magari, ci pensa Angus— e la canzone è fatta. Altre otto e il disco è pronto.
In 5 anni (dal 1975 al 1979), di dischi, ne sfornarono cinque, uno più elettrizzante dell’altro e in sostanza uno identico all’altro. Che noia, diceva qualcuno. Che sballo, dicevano tutti gli altri e compravano i biglietti per i concerti. Andavano lì e si beccavano uno spettacolo più o meno così:
[youtube]http://youtu.be/vv6QJ2S9hrE[/youtube]

«Ero sposato quando entrai nel gruppo e mia moglie disse: “Perché non scrivi una canzone su di me?” Così io scrissi ‘She’s got balls’. E lei chiese il divorzio».
Finalmente, sulla musica degli AC/DC, Bon potè dare libero sfogo alla sua vena di paroliere piccante, così mortificata dalle boiate degli anni sessanta. ”She’s got balls” compare nel primo disco del gruppo: ci mostra un Bon già bello carico e –come lui stesso ci fa notare– libero finalmente da vincoli coniugali. Non che se ne fosse mai curato molto. Ci sono un sacco di storielle sul suo conto —tipo: «era così spesso al reparto malattie veneree dell’ospedale di Melbourne che ormai gli infermieri lo conoscevano per nome: chiamavano ”2228!”, ”2229!”, e al suo turno ”Bon!’»’.
O racconti di pura follia: come quando si buttò dal terzo piano nella piscina dell’albergo o come quando, dopo un concerto, sparì nel deserto del Mojave per tre giorni con tre tizi sconosciuti e si presentò all’aeroporto poco prima che l’aereo partisse, vestito solo di un paio di bermuda a fiori, non ricordando nulla dal concerto in poi. Era un tipo singolare, si capisce. Ma era simpatico, aveva un gran senso dell’umorismo e non si prendeva troppo sul serio. Sul palco a volte si concedeva qualche digressione in un cabaret rock ‘n roll. Eccolo nella sua migliore imitazione di Luciana Littizzetto:
[youtube]http://youtu.be/MC-xt3oO_HI[/youtube]

Probabilmente sconfineremo nell’agiografia, ma dobbiamo dire anche che era un uomo profondamente buono. Una volta chiese a un discografico un po’ di fumo e quello gli diede solo qualche grammo —la metà di quello che aveva con sé. Un paio d’anni dopo sentì alle spalle la voce di Bon: «Capo, era una vita che ti cercavo!’». Tirò fuori un enorme panetto di hashish, un vero mattone, e gliene diede la metà. Dovunque andasse, mandava pacchi di cartoline a chiunque conoscesse. ‘«Era fatto così, cazzo. Un vero tesoro. Ci fu un periodo, subito dopo la sua morte, in cui continuavano ad arrivare le cartoline che aveva spedito negli ultimi giorni. E sembrava che fosse ancora con noi».

Fu trovato morto sul sedile posteriore di un’auto. Aveva trentatrè anni.
Si dice le che ragazze che vanno a dormire sulla sua tomba si risveglino con dei succhiotti sul collo.

Stefano Colombo

Stefano Colombo
Studente, non giornalista, milanese arioso.

Commenta