
L’8 marzo è la giornata universalmente riconosciuta come Festa della Donna.
Peccato che non sia nata come tale.
L’8 marzo era, in origine, la Giornata Internazionale della Donna, che non festeggiava la donna ma invitava a manifestare per i diritti e i doveri che ogni donna, così come ogni uomo, dovrebbe possedere.
Ideata nel 1909 da una costola femminile del Partito Socialista Americano — per molto tempo contestata dal partito stesso — questa giornata ottenne una data univoca e un riconoscimento internazionale nel 1922, grazie al ruolo ricoperto dalla popolazione femminile nella Rivoluzione Russa. Da quell’anno, durante i primi giorni di marzo furono organizzati incontri, comizi e picchettaggi a favore del genere femminile.
Che fare quindi oggi? Festeggiare o manifestare? In fondo, non è stata già concessa la parità? Perché proseguire con noiose proteste?
Eccola qui, però, la sottile incongruenza conservata accuratamente nel termine “concedere”.
L’impegno compiuto per raggiungere la parità è stato spesso osservato dall’esterno – e proprio perché esiste un esterno –, come un divertente teatrino, irragionevole, un ridicolo capriccio da tollerare per quieto vivere, senza capirne esattamente le motivazioni.
Questa sorta di condiscendenza si è imposta durante i primi cortei per il suffragio femminile, con lo stesso atteggiamento accomodante con cui si dà retta a un adolescente ribelle che fa battaglie per il lavoro, per il divorzio, per l’aborto, per il reato di stupro , e tutt’ora si rivolge così a chi decide di rifiutare in modo più o meno eclatante ciò che viene pubblicamente considerato la norma, il limite.
Più precisamente corrisponde a quel modo di fare sottile con cui si scrutano le diffuse eccezioni a quei pregiudizi che non sono più nemmeno considerati tali, ma sono divenuti i capisaldi del concetto di Normalità.
Sono luoghi comuni che comprendono caratteristiche psico-fisiche, attitudini caratteriali, attrazioni, desideri e capacità che non discriminano solo il genere di un essere umano, ma il suo singolare modo di essere, la sua natura che, proprio perché è sua, non può essere accomunata a quella di chi gli assomiglia solo perché gli somiglia.
Oggi come nel 1922 è ancora necessario manifestare, perché ciò che è stato ottenuto in anni di proteste e referendum è solo una parvenza di uguaglianza — unicamente legislativa, socialmente assente —. Un’ombra rispetto agli ideali originali, che ha assicurato posti di lavoro pensati per le donne detti “Quote rosa” ma non strumenti, come asili nido per cui tutte le donne per merito, e non perché donne, possano accedervi.
Ha conquistato il divieto di licenziare le future madri, ma è incapace di avvicinare gli uomini al diritto alla paternità.
Ha ottenuto il riconoscimento di violenze di genere per la mancata educazione all’uguaglianza, e ha procurato una legge che protegge le donne maltrattate, ma che non sa prevenire e curare i maltrattatori.
È una parità a metà. Quindi nulla.
Uno degli ostacoli principali al raggiungimento della completa uguaglianza è l’immortale convinzione per cui debba essere solo il genere femminile a conquistare ciò che quello maschile ha posseduto per lungo tempo. Raramente si pensa che anche il percorso opposto debba essere essenziale.
La parità infatti non verrà mai raggiunta fintanto che la maggioranza della popolazione non desidererà anch’essa la parità, finché non la considererà anche per sé un privilegio e farà sì che si realizzi.
Così come in qualsiasi battaglia sociale, infatti, si potrà vincere solo quando coloro che compongono la maggioranza inizieranno a militare al fianco della minoranza, facendo proprie le ragioni altrui.
Io sono diverso da te ma mi batto per te.
Trasformare le manifestazioni dell’8 marzo in festeggiamenti, come è accaduto nell’ultimo decennio, avrebbe dovuto significare il trionfo degli ideali di chi questa giornata la concepì.
Se però lo scopo non è stato raggiunto ma, anzi, si è esteso alla conquista di una parità che non sia più solo sessuale ma che comprenda ogni altro livello differenziale, per cosa si festeggia?
Per ringraziare tutte le donne un giorno l’anno?
Per tentare la conquista di una bella fanciulla con un mazzetto di mimose (che tra l’altro furono scelte perché particolarmente economiche, oggi ci si potrebbe anche impegnare un po’ di più)?
Per pura abitudine?
No, oggi questa festa schernisce anni di lotte e torture, si fa beffa di chi ancora nel Mondo compie nette distinzioni tra i generi, di chi le subisce e le proclama, qualsiasi sia il genere.
Per cui oggi si festeggi pure, si comprino fiori, ci si metta in ghingheri e si recitino poesie laconiche, ma non lo si faccia in nome della donna, lo si faccia per le belle mimose, per l’inaugurazione del ristorante all’angolo, per il compleanno della cuginetta.
Per la donna e per l’uomo, invece, si continuino a costruire strumenti che possano superare, dove necessario, quelle differenze che ancora oggi penalizzano e privilegiano, non perché politicamente corretto ma perché giusto.
Articolo di Giulia Pacchiarini