La storia del premio
Dal lontano 1929, la premiazione degli Academy Awards of Merit giunge a immortalare per sempre nella storia tutti coloro che hanno partecipato alla realizzazione di opere cinematografiche nel corso del 2013.
Meglio conosciuta come cerimonia degli Oscar, per via della statuetta assegnata come premio— che assomigliava, senza faccia e con una spada in mano, allo zio di nome Oscar di una delle impiegate della Academy— il premio nacque due anni dopo la creazione dell’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences per volontà di uno dei plenipotenziari più grandi, e dispotici, di tutti i tempi: Louis B. Mayer, co-fondatore e presidente della Metro Goldwyn Mayer, quella del celebre “leone ruggente” nei titoli di testa.
L’idea originale era quella di creare un ente per il «miglioramento e la promozione mondiale del cinema», scordandosi però di aggiungere che il “miglioramento” era una visione conservatrice della vita attraverso il cinema, di cui fecero le spese grandi registi sopra le righe come Erich von Stroheim o attori come John Gilbert e Greta Garbo, e la “promozione mondiale del cinema” scordava il fondamentale attributo di “americano”, fondamentale per meglio comprendere la ragione per cui ai premi, eccetto ovviamente quello di Miglior Film Straniero, sono ammessi solo film prodotti negli Stati Uniti.
Senza voler essere dietrologici, spiccano nella lunga storia di questi premi diversi risultati “politici”: la prima vittoria di una donna regista, in un mondo così dominato dalla componente maschile, avvenuta nel 2010 (Kathryn Bigelow per The Hurt Locker) o il premio per la Migliore Regia a Martin Scorsese solo nel 2007 per The Departed, dopo quattro nomination andate a vuoto per capolavori come Toro Scatenato, L’ultima tentazione di Cristo e The Good Fellas (Quei Bravi Ragazzi). Ha valenza politica anche il mancato ritiro dei premi: Woody Allen non ha ritirato nessuna delle quattro statuette vinte, così come Paul Newman che, stanco della casella zero alle vittorie dopo molte nomination, non ritirò l’Oscar come miglior attore protagonista per Il colore dei soldi nel 1987; o anche i due casi estremi di rifiuto vero e proprio del premio, celeberrimo nel 1973 per il suo ruolo ne Il Padrino quello di Marlon Brando, che sfruttò la cerimonia per permettere ad una nativa americana, che poi si scoprì essere un’attrice, di tenere un discorso in favore dei popoli che abitavano l’America prima di essere segregati nelle riserve, o il rifiuto di George C. Scott due anni prima di Brando per l’interpretazione in Patton, generale d’acciaio.
A generare più dissidi è la questione della distribuzione dei voti, divisi tra attori, registi ma soprattutto produttori, che ogni anno tende a premiare per motivi politico-economici piuttosto che per l’oggettiva qualità dei film e delle interpretazioni stesse: su tutto possono fare fede le parole di cruda consapevolezza di Robert Redford alla presentazione dell’ultimo Sundance Festival (che premia il cinema indipendente), da lui stesso voluto, quando dice: «Hollywood è un business. E questa è una realtà per cui provo il massimo rispetto. Premi come gli Oscar dipendono in gran parte da come vengono impostate le campagne promozionali». Recentissimo il caso, avvenuto proprio per questa edizione, della squalifica della canzone “Alone Yet Not Alone” di Bruce Broughton, il quale avrebbe abusato della sua posizione all’interno del comitato esecutivo della branca musicale e inviato mail di promozione ad alcuni membri dell’ Academy.
È grande bellezza
A conferma di una tendenza all’attenzione dei temi etici e sociali ma anche a quelli che smuovono di più l’opinione pubblica, in questa edizione dei premi Oscar hanno trionfato alcuni nomi noti e altri meno: il premio al Miglior Film è andato a 12 Anni Schiavo, vittoria ampiamente pronosticabile dato il tema, molto sensibile per gli americani, della segregazione razziale; film che ha portato alla vittoria sia Lupita N’yong’o, premiata come Miglior Attrice Non Protagonista, sia lo sceneggiatore John Ridley.
Altrettanto scontata è stata l’incetta di premi per Gravity di Alfonso Cuaròn, film ambientato nello spazio e che fa largo ricorso alla moderna tecnologia riuscendo così a vincere premi prestigiosi come quello per la Migliore Regia (Cuaròn), Miglior Fotografia (Emmanuelle Lubetzki), Miglior Montaggio (Cuaròn e Mark Sanger), inoltre anche Migliori Effetti Speciali, Miglior Sonoro, Miglior Montaggio Sonoro e infine anche il premio per la colonna sonora a Steven Price.
Quelli pronosticabili finiscono qua, perché poi le sorprese –come ogni anno– sono state molte: nessun premio per Leonardo Di Caprio, nonostante una meritata (più che in precedenza) nomination come Miglior attore Protagonista; hanno trionfato invece per l’interpretazione nello stesso film, Dallas Buyers Club, un grande attore conosciuto, Matthew McConaughey, e un altro artista che si trova sempre più a suo agio nel mondo del cinema, Jared Leto ―leader dei Thirty Seconds to Mars―che ottiene il premio come Miglior Attore Non Protagonista.
Porta a casa la sua prima statuetta Cate Blanchett, per la sua interpretazione in Blue Jasmine di Woody Allen. Meritato il premio all’attrice, anche se il film non è certo annoverabile tra i migliori del grande regista newyorchese.
Vero motivo di ansia nazionale, l’Oscar come Miglior Film Straniero è andato a La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, ma chiunque abbia visto il film dovrebbe esserne contento a metà, essendo la drammatica trasposizione artistica di una società (italiana e non solo) malata di edonismo e priva di contenuti, legata così alla forma e non alla sostanza —per cui le celebrazioni come se fosse l’inizio di un nuovo rinascimento sono del tutto fuori luogo; resta però un sottile alone di piacere quando un’opera italiana riceve un premio internazionale tanto prestigioso.
In definitiva si può dire che l’Academy stia lentamente guardando dentro se stessa, cercando di preferire temi etici e sociali che possano davvero toccare il cuore delle persone come solo la Settima Arte riesce a fare.
Jacopo Iside
@JacopoIside