Del: 4 Marzo 2014 Di: Francesco Floris Commenti: 2

Non separatevi dalle vostre illusioni; quando esse sono scomparse, potete continuare a esistere, ma avete cessato di vivere.
Mark Twain, citato dal Wall Street Journal l’11 settembre 1929

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A partire dal settembre 2008 quando la “più grande crisi economica dal dopoguerra” ha iniziato a mostrare i denti, sulla stampa estera e parzialmente su quella italiana si sono susseguiti innumerevoli interventi di luminari della materia e operatori dei mercati finanziari per cercare di rispondere a un quesito assillante: è questa crisi identica o per lo meno assimilabile a quella del ’29?

Il sottinteso è chiarissimo: se la risposta fosse positiva allora basterebbe ricalcare le ricette messe in atto negli anni ’30 per domare la crisi odierna, un atteggiamento ricorrente nelle discussioni ma, se vogliamo, leggermente semplicistico: non tiene cioè particolarmente conto di quella che oramai all’unanimità viene riconosciuta come una fra le maggiori, se non la principale, tra le cause di fuoriuscita dalla depressione post ’29 – la corsa agli armamenti da parte di varie nazioni e la successiva, quasi inevitabile, Guerra Mondiale.
Chi non fosse convinto di questa tesi può sempre confrontare i dati sull’occupazione statunitense nel 1940 con quelli del 1945 e trarre le sue ovvie conclusioni: un crollo della disoccupazione di quasi 19 punti percentuali in cinque anni, con una corsa al lavoro enormemente trainata dall’infinita domanda pubblica di cui disponeva il governo federale in tempo di belligeranza.
Il vero New Deal cominciò a Pearl Harbor e il suo momento di splendore fu su una spiaggia della Normandia.

Nonostante questo, è corretto riflettere sulle analogie fra le due epoche storiche – che peraltro esistono – e oggi lo faremo attraverso un testo del 1997, antecedente allo scandalo dei mutui subprime e all’impennarsi degli spread, quindi sostanzialmente immune alle forzature ideologiche della stringente attualità.

Il testo è The Great Crash di John Kenneth Galbraith, economista di spessore del ventesimo secolo che oltre a una pluridecennale carriera accademica ha ricoperto il ruolo di consigliere economico della Casa Bianca durante le amministrazioni Roosevelt, Kennedy e Clinton –sessant’anni di storia economica americana osservati dalle prime file della platea, il che equivale a dire sessant’anni di storia economica globale dal punto di vista del suo principale interprete.

Con lo stile che è proprio della divulgazione economica di Galbraith – i suoi testi Storia dell’economia, Soldi, e lo stesso Il grande crollo sono editi in Italia da Bur-Rizzoli – infarcita di aneddoti mai pretestuosi e sempre funzionali alla narrazione teorica, tratti per lo più dalla stampa dell’epoca (New York Times e Wall Street Journal su tutti), l’economista canadese naturalizzato statunitense ricostruisce nei capitoli del testo le tappe di avvicinamento al fatidico “giovedì nero”, il 24 ottobre 1929.

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I ruggenti anni Venti

L’euforia sui mercati azionari e immobiliari degli anni Venti, riportando l’esempio dell’enorme bolla immobiliare in Florida, durante la quale vecchie volpi e speculatori della prima ora si scambiarono a tempi di record – l’intervallo fra un passaggio di proprietà e un altro poteva durare anche solo un paio di settimane – improbabili lotti e terreni agricoli improduttivi accrescendone il valore in maniera spropositata.
Nemmeno i venti della natura madre e matrigna, che il 18 settembre 1926 distrussero migliaia di tonnellate di materiale edile uccidendo quattrocento persone a Miami, poterono interrompere quel processo irreversibile che portava la classe media americana ad investire i propri risparmi sui mercati azionari, spesso senza alcuna valutazione razionale dell’effettivo investimento e del rischio correlato.
La corsa era solo al rialzo e drogata dall’incapacità di leggere il futuro.

Una serie di atti di deregolamentazione che riducevano l’onere d’acquisto di un terreno al solo 10% del valore di compravendita, permisero a decine di migliaia di persone di improvvisarsi immobiliaristi.

La politica monetaria sufficientemente “allegra” della Riserva Federale Statunitense, intrapresa nella seconda metà del decennio e parzialmente incentivata da pressioni dei banchieri centrali europei, sommerse di liquidità il sistema bancario e di intermediazione finanziaria, che si potevano a questo punto permettere di prestare facilmente, e a tassi agevolati, ingenti quantità di denaro anche a chi non possedesse i requisti necessari di solvenza.

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Su queste basi iniziamo a cogliere i primi indizi di analogia con ciò che avvenuto in tempi più recenti.

Galbraith stesso avverte il lettore sulle difficoltà immense nel rintracciare singoli responsabili, anche se non nega l’esistenza di personaggi influenti del sistema affaristico che, con le loro azioni o semplicemente dichiarazioni, favorirono un’eccessiva fiducia nei costanti e irreversibili rialzi dei titoli borsistici sul lungo periodo.
Due nomi su tutti, quello di John J. Raskob, membro del consiglio di General Motors, che il 23 marzo 1928 dichiarò che le azioni G.M. non avrebbero dovuto “quotare” meno di dodici volte gli utili, innescando una forte ascesa dei titoli societari e trascinando in questa scalata l’intero listino.
Per non parlare di Will Payne che sulla rivista World’s Work spiegava perché negli investimenti c’è solo da guadagnare per ogni anello della catena: un investitore compra G.M. a 100 dollari, le rivende ad un altro a 150 che a sua volta le rivende a un terzo a 200 e via dicendo.
Ovviamente solo fino a quando i criceti continuano a correre sulla ruota.
Era il gennaio del 1928 e nulla poteva infrangersi contro l’ottimismo dilagante delle stampa e dell’opinione pubblica.

Non si pensi tuttavia che gli anni Venti siano stati un periodo omogeneo in tutto e per tutto dal punto di vista delle istituzioni bancarie e degli andamenti dei mercati: intere giornate di fortissimi ribassi si susseguirono per l’intero decennio pur senza intaccare la tendenza al maremoto generale.

Nel corso del 1929 il consiglio della Riserva Federale emise una serie di comunicati stampa “allarmisti” per diffidare gli istituti di credito commerciale dal prestare denaro agli speculatori; forse per incapacità di comprendere le proporzioni del fenomeno in atto e in parte per le divisioni interne al consiglio stesso sulle politiche da tenere, questi comunicati rimasero urla nel deserto.

La Banca d’Inghilterra, nel vano tentativo di fermare il flusso di capitali in uscita dal paese verso il nuovo Bengodi, a febbraio alzò il tasso bancario dal 4,5% al 5,5%, ottenendo in due giorni un forte ribasso dell’indice “industriale” del New York Times – ma l’effetto restrittivo durò meno di un mese.

L’età dell’oro sarebbe potuta concludersi sin dal 26 marzo 1929 con sette mesi di anticipo sul destino, in una giornata di ribassi disastrosi con annessi “schizzi” del saggio di prestito agli operatori di borsa e le pressanti richieste da parte degli agenti di cambio di ricevere maggiori capitali in contanti a garanzia dei titoli posseduti.

Solo le parole di Charles E. Mitchell, capo della National City Bank e membro della direzione della Banca della Riserva Federale – uno di quei personaggi percepiti come infallibili – fermarono l’emorragia.
Mitchell dichiarò che la sua banca avrebbe prestato il denaro necessario a impedire la liquidazione dei titoli e nel farlo avrebbe attinto a credito alle riserve della Banca Federale.
Significava solo prendere del tempo ma in quel momento, anche agli oppositori di Mitchell che pure esistevano nella Banca Federale e dentro il Senato americano, sembrò la soluzione migliore. Proseguiva il silenzio delle classi dirigenti, che sarebbe stato di lì a breve sommerso da uno scoppio molto più potente di quanto chiunque si potesse immaginare.

Il giovedì nero

Galbraith ci conduce a piccoli passi verso la meta d’arrivo, attraverso una prosa quasi evocativa e narrandoci gli eventi dell’estate del’29, tutti segnati dall’ascesa inarrestabile della Goldman Sachs&C. – banca d’investimento e commissionaria di borsa nata non più di un anno e mezzo prima, nel dicembre del ’28 e destinata ad essere un eco costante, nelle cronache finanziarie dei decenni successivi, durante tutte le crisi economiche americane.

Nell’incapacità di cogliere un futuro che non fosse roseo, durante quella torrida estate di fine decennio, anche gli operatori tradizionalmente più propensi al pessimismo si abbandonarono ad orgiastiche operazioni speculative, attraverso la vendita di azioni e obbligazioni nei confronti di enti pubblici, legando indissolubilmente, come avvenuto in tempi più recenti con interi comuni o amministrazioni imbottiti di titoli tossici, il proprio destino a quello della cosa pubblica.

Pochissime voci, attutite quando non boicottate dal marasma generale, si levarono contro l’imminente disastro, fra le quali il saggista ci ricorda quella di Paul M. Warburg della International Acceptance Bank, il quale invocò con disperazione una frenata al fine di non “provocare una depressione generale che avrebbe coinvolto l’intero Paese” e non solo istituti e persone (che numericamente rappresentavano ancora minoranza nella nazione) esposti in prima battuta a Wall Street.
Pare destino di tutte le Cassandre dell’universo rimanere inascoltate.

A settembre cominciò il primo “autunno caldo” della storia recente: ai primi segnali di debolezza sui listini o nei settori produttivi del Paese, si rispose, come sempre in queste occasioni, con la negazione che è notoriamente il primo passo verso la dipendenza.
Galbraith accenna di frequente nel testo a quella che è considerata una vera e propria magia nera che regola i mercati finanziari: le cose accadono solo se si continuano a ripetere e di contro, non accadono, se si riamane in silenzio.
Fu questo atteggiamento di ostruzione e palese miopia ad aggravare ulteriormente un contesto che non poteva più essere rimandato all’infinito.

Per tutto ottobre si assistette a moniti e richiami che vertevano su un solo specifico punto: il peggio è già passato, impariamo dai nostri errori, “sosteniamoci in maniera organizzata”, erano le preghiere e le omelie che quotidianamente la stampa dava in pasto alle rotative.

Poi, come spesso accade in tutti i drammi ben costruiti, quando l’intreccio sembra sbrogliarsi definitivamente, i nodi vengono al pettine come un sol uomo.

E la storia scelse la giornata di giovedì 24 ottobre, nel giorno intitolato al re di tutti gli dei, questi caddero come mosche dal cielo: quasi tredici milioni di azioni cambiarono di mano, sempre al ribasso, spesso distruggendo i risparmi di chi aveva creduto a quel principio sancito nella Costituzione americana, il diritto alla felicità, identificato non a caso con il denaro e la ricchezza perpetua.

Un’espressione potente da allora entrò nel gergo comune: il 24 ottobre 1929 venne associato per sempre al sostantivo “panico”. Le persone – nell’arco della sola mattinata – vendettero ad una velocità tale i propri titoli che il ticker, lo strumento che aggiornava in tempo reale le quotazioni, rimase indietro rispetto al volume d’affari, minando le certezze relative ai portafogli di venditori e compratori.

Le notizie cominciarono ad affluire per strada, difficilmente si era più in grado di distinguere il vero dal verosimile e dal falso, le borse di Chicago e Buffalo chiusero in anticipo per evitare ulteriori ribassi, un commissario di polizia di Grover Whalen ordinò ad un reparto mobile di schierarsi all’angolo con Wall Street, si udirono le prime grida di chi si lanciava dai palazzi di New York e prima che arrivasse l’ora del pranzo, undici noti speculatori decisero di farla finita.

Alle 12:30 un manipolo costituito dai più importanti banchieri e finanzieri americani organizzò una riunione di salvataggio improvvisata, durante la quale si decise di fare fronte comune, rilasciando dichiarazioni fiduciose e intervenendo sin dal primo pomeriggio sui mercati con la propria liquidità, per frenare la corsa alle vendite: la strategia funzionò e alla fine della giornata le perdite si potevano considerare contenute; certo in tutto il Paese migliaia di persone erano rimaste a piedi scalzi e per loro, vedere il mercato riprendersi dopo averle dissanguate in poche ore, poteva sembrare uno smacco ancora più gigantesco.
I finanzieri e i banchieri, al contrario, si videro attribuire un ruolo quasi messianico, ennesimi salvatori di un declino per il quale non sarebbe esistita terapia.
Si sprecarono richiami alla “collera divina” per una nazione benedetta da Dio che aveva perso di vista i valori spirituali. Nei sermoni domenicali si ringraziò il cielo per questa punizione che finalmente aveva trasformato il popolo americano in un popolo di formiche e non solo di cicale.
La periodica finanziaria già gridava al nuovo miracolo, annunciando favolose quantità di ordini d’acquisto per la settimana successiva.
Inutile dire che durò meno di un battito di ciglia.

Il lunedì, alla riapertura, il disastro aspettava le buone speranze sull’uscio: le perdite furono superiori a quelle dell’apocalisse precedente e questa volta nemmeno la riunione fra banchieri presso gli uffici della Morgan sortì alcun effetto.
Un comunicato avvertì che non era né interesse né proposito dei banchieri mantenere un determinato livello dei prezzi o proteggere le rendite di chicchessia.
Come scrive Galbraith: “Il mercato si era riaffermato come forza impersonale che sfuggiva al potere di controllo di qualsiasi persona o istituzione”. E quella forza voleva vendere, vendere a tutti i costi, vendere a qualunque prezzo. Per chi cercava ulteriori conferme sarebbero bastate le ventiquattro ore successive.

Martedì 29 ottobre la falce colpì in maniera indiscriminata, radendo al suolo o livellando enormi pacchetti azionari di proprietà di ricchi e benestanti. Si diffusero voci relative ad un attacco ribassista da parte dei grandi gruppi bancari.
E come scriveva De André “una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale”.

Società e banche di provincia che fino a quel momento avevano visto in Wall Street un campo fertile richiamarono la propria liquidità stringendo l’accesso al credito, i prestiti agli operatori calarono di oltre un miliardo di dollari e quelle persone che fino al week-end precedente erano state osannate come padri della patria, ai quali intitolare un nuovo Monte Rushmore, videro screditata la propria dignità – per i banchieri statunitensi iniziò un decennio di scherno costante da parte dei giornali, dei comici, delle commissioni parlamentari: “L’onnipotenza logora solo chi non ce l’ha” e loro l’avevano appena perduta lungo la strada.

Il nostro viaggio si conclude qui, all’alba del nuovo decennio: l’epidemia si diffuse oltre Atlantico e non è nemmeno necessario specificarne alcune delle conseguenze più drammatiche.
Gli anni Trenta – altresì complessi a loro modo – furono gli anni della Grande Depressione, espressione estrapolata dal contesto dei disturbi psichici mai così appropriata.
Furono anche anni di forte dibattito teorico e operativo sulle soluzioni da adottare, lo spazio da relegare al mercato e quello da concedere alla mano pubblica, anni di teorie economiche innovative che mettevano, pur sempre nel contesto del capitalismo, a dura prova tutti i credo precedenti.

Ma proviamo a rispondere al quesito iniziale da cui siamo partiti: tracciare isomorfismi e continuità fra le epoche è operazione spesso scorretta, disfunzionale o semplicemente banale.
Eppure non si può fare a meno di guardare a quegli anni Venti sulle coste del Nuovo Mondo vedendosi rispecchiati: il credito facile degli anni 2000 che ha garantito fortissimi rialzi economici, anche in Europa, e si pensi al caso spagnolo; il “piano casa” statunitense datato anni Novanta e che prevedeva almeno “una casa per ogni americano”, proposito ovviamente condivisibile in linea teorica ma assai arduo da realizzarsi senza andare a sbattere contro il muro dell’indebitamento privato – indebitamento che prima o poi deve per forza rientrare.
Le riunioni di salvataggio, i pool di esperti, le commissioni, la fiducia urlata ad alta voce nel vano tentativo di convincere in primo luogo se stessi: tutte costanti che vediamo riaffermarsi identiche a quel passato in fin dei conti non così lontano.

2008

Quel giorno di settembre del 2008 in cui si decise, senza alcuna apparente spiegazione razionale, di lasciar fallire Lehman Brothers, dopo che nei due mesi precedenti si erano salvati giganti finanziari e assicurativi del calibro di AIG: quel giorno fu il nuovo 24 ottobre o forse meglio – 28 ottobre, quando il sistema bancario si rifiutò di tenere in piedi la giostra scatenando il pandemonio.

Da entrambe le crisi s’impara che a certi livelli non esiste differenza o compartimentazione stagna fra il “gioco della finanza” e la famosa “economia reale” – espressione quanto meno abusata in Italia e che nega la complessità degli aggregati economici.

Ma l’analogia che più colpisce leggendo le cronache e le dichiarazioni degli anni Venti e raffrontandole con il nostro vissuto recente, è il senso di irreversibilità di un processo.
Galbraith spiega come per lunghi periodi della vita americana, l’arricchirsi non fosse semplicemente l’esito di una pratica virtuosa, ma piuttosto un diritto naturale, un orizzonte teleologico al quale era impossibile non aspirare.
La stessa condizione si verifica, in senso contrario, quando l’economia falcia i suoi servi, quando si ha la percezione che nulla possa cambiare direzione, che nulla sia sottomesso alle decisioni della politica, l’impossibilità d’agire aleggia come uno spirito sul destino dei popoli.

Conosciamo fin troppo bene questa realtà, psichica e materiale allo stesso tempo, e non esiteremmo a definirla un’altra Grande Depressione.

Forse esiste molto più di qualche somiglianza, ma questo ce lo potrà dire solo un libro fra settant’anni anni.

Francesco Floris
@Frafloris

Francesco Floris
BloggerLinkiesta
Collaboratore de Linkiesta.it, speaker di Magma, blogger.

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