Del: 28 Aprile 2014 Di: Marta Clinco Commenti: 1

I documenti prodotti durante il Processo di Norimberga sono archiviati negli scaffali del Record Center ad Alexandria (Virginia), e coprono una distanza di otto chilometri.

Verso il processo

Nel corso del secondo conflitto mondiale, il governo britannico e i suoi alleati avevano già iniziato a porsi il problema del trattamento da riservare, a guerra conclusa, ai principali responsabili dei crimini commessi dall’Asse – sebbene pare con una certa esitazione, dal momento che molte furono le pressioni esercitate dai governi insediati a Londra in quegli anni: tra il 1939 ed il 1941, si erano infatti stabiliti nella City ben nove governi in esilio (norvegese, lussemburghese, polacco, olandese, belga, ceco, jugoslavo, greco, Charles de Gaulle a capo della France Libre). Questi, già a partire dallo scoppio della guerra, avevano denunciato le atrocità commesse dalle forze tedesche a danno della popolazione civile nei territori occupati e, nel gennaio 1942, gli stessi avevano istituito una commissione inter-alleata per la condanna e la punizione dei crimini di guerra. Poco più tardi, nel maggio di quell’anno, Winston Churchill propose al governo britannico di istituire una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite per l’investigazione dei crimini di guerra (United Nations Commission for the Investigation of War Crimes). Nel 1943 vi furono incluse anche Unione Sovietica e Cina: il risultato fu la Dichiarazione su atrocità, massacri ed esecuzioni di massa in cui si affermava, tra le altre cose, che gli Alleati erano in possesso di “prove documentate” a riguardo. Questo atto, conosciuto come Dichiarazione di Mosca, può considerarsi come l’atto di nascita del Tribunale di Norimberga: città un tempo teatro delle più grandi manifestazioni del Partito Nazionalsocialista, culla della propaganda del Reich —ospitò dal 1933 al 1938 il Reichsparteitag, il congresso annuale del partito, e le sue parate magniloquenti— e luogo di promulgazione delle leggi del 1935. Un luogo che il destino volle anche simbolo della disfatta finale del grande, temuto, Terzo Reich.

Molte furono le figure a favore dei metodi più drastici di punizione dei colpevoli, tra cui l’emissione di liste di criminali di guerra da passare immediatamente per le armi prevista dal Piano Morgenthau, appoggiata da Churchill e da Roosevelt. Altri si schierarono a favore del regolare processo. La fuga di notizie riguardo il brutale Piano Morgenthau e la conseguente indignazione dell’opinione pubblica rafforzarono il sostegno all’alternativa alle esecuzioni sommarie. Così, nell’aprile del 1945, di fatto, USA, Unione Sovietica e Gran Bretagna davano il proprio consenso all’istituzione del processo. A suggello della Dichiarazione di Mosca, la Conferenza di Postdam tenutasi in agosto annunciò la fondazione di un tribunale militare per la condanna dei principali crimini di guerra.

Dal punto di vista storico, un Tribunale Internazionale era un’assoluta novità nella prassi adottata dalle potenze vincitrici nei confronti dei vinti, sicché non tardarono a giungere le critiche all’istituzione stessa, tacciata di perpetrare la “giustizia dei vincitori”. Ciò non toglie che il Tribunale abbia adempiuto in modo soddisfacente ai compiti prefissati: dopo una guerra tanto efferata e distruttiva, che aveva mietuto milioni di vittime innocenti, il mondo doveva sapere.

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Nel 1945, a conflitto ormai concluso, le armate russe liberarono i campi di sterminio. Agli occhi dei primi testimoni, si presentò subito uno scenario irreale popolato di orrori fino ad allora mai immaginati: devastazione, cumuli di corpi straziati, malattie, epidemie. Dei prigionieri, spesso non si riusciva a capire se fossero vivi o morti: giacevano nel fango, riversi su sé stessi, nelle fosse; capitava che se ne intravedesse uno muoversi, ci si stupiva fosse ancora vivo. Il mondo doveva assolutamente sapere; la scoperta del Male non poteva –non doveva– restare dominio di pochi. E si vedeva quanto mai necessario quello che fu anche, in qualche modo, un “rito catartico” dalla forte eco internazionale, fondamentale e di immensa portata, concretizzatosi in 12 sentenze di condanna a morte, 3 condanne all’ergastolo, 4 condanne di pene dai 10 ai 20 anni di detenzione e 3 sentenze di assoluzione.

Il processo si protrasse dal 14 novembre 1945 al primo ottobre del 1946.

L’accusa

Si articolava in tre punti: crimini contro la pace, crimini contro il diritto di guerra e delitti contro l’umanità.

I crimini contro l’umanità entravano nell’aula di un tribunale per la prima volta nella Storia. Questi erano stati definiti e formulati nella Convenzione di Londra del 1945 come segue: “Gli imputati hanno deliberato e commesso crimini contro l’umanità in Germania e nelle regioni occupate, impiegando a tale fine mezzi tipici e sistematici quali: l’assassinio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione ed altre pratiche disumane contro la popolazione civile, prima e durante la guerra, nonché la persecuzione per motivi politici, razziali e religiosi, finalizzata all’attuazione di un piano per la preparazione e conduzione di guerre di aggressione e illegittime. Molte di tali pratiche e atti di persecuzione rappresentano violazioni delle leggi interne dei Paesi in cui sono state commesse”. Questo capo d’accusa in particolare avrebbe permesso di condannare direttamente i gerarchi nazisti per lo sterminio degli ebrei ed il genocidio delle popolazioni dei territori occupati.

La guerra d’aggressione divenne crimine contro la pace.

Robert H. Jackson —procuratore Capo U.S.A, padre del processo e fautore dell’intesa tra le quattro potenze— si dichiarò irremovibile in particolare sull’ex post facto, ovvero il giudizio sulle azioni che al tempo dei fatti non costituivano reato: data l’entità dei delitti imputati, Jackson riuscì ad ottenere che si procedesse alla loro persecuzione legale nonostante l’assenza di leggi precedenti il processo che contemplassero tali crimini.

Fondamentale fu anche il divieto di addurre come prova d’innocenza la semplice ubbidienza ad ordini superiori; ci si appellava ora ad un principio che avrebbe costituito la sostanza prima del processo: il concetto di responsabilità individuale anche per quei crimini commessi all’interno di un regime che li imponeva.

Gli imputati

Alla sbarra troviamo le più alte cariche del regime, chiamate a rispondere ora in prima persona delle atrocità commesse durante la guerra. Privati della loro guida e di quel potere che era parso così saldamente invincibile, quegli uomini tornarono ad essere individui soli, con le loro personalità, spesso controverse, disgregate ed incongrue; soli con le loro follie, le loro paure e l’orrore.

Per la prima volta i luoghi dello sterminio venivano alla luce. Nell’aula del processo si assistette alla proiezione delle immagini documentarie raccolte dopo la liberazione dei campi — immagini che agli occhi dei presenti valsero per gli imputati più di qualsiasi condanna. Le prove di quanto era stato solo raccontato, cui ancora molti stentavano a credere, si trovavano lì, ineluttabili; e nel silenzio della Sala 600 del Tribunale di Norimberga parevano urlare forte in volto agli indifferenti gerarchi, che spesso azzardavano pose orgogliosamente impettite e sdegnose durante le proiezioni. Fatta eccezione per pochissimi casi, nessuno di loro pareva sentirsi colpevole di quelle atrocità: alcuni, come l’ex presidente della Reichsbank Hjalmar Schacht (assolto), se ne stavano lì, provocatoriamente voltati di spalle. Stampa, avvocati, il resto dei presenti e l’opinione pubblica subirono un forte shock. Tutti in fondo si domandavano se davvero quegli ometti, con quelle facce da ragionieri, banchieri, contabili – così ordinarie, mediocri, eppure di carnefici – si fossero mai resi conto fino in fondo di ciò che stavano facendo quando eseguivano gli ordini.

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Volendo identificare tra gli imputati un primus inter pares, di certo si tratterebbe di Hermann Göring, il Reichsmarschall comandante in capo della sezione militare, morfinomane e collezionista raffinato di opere d’arte, vanitoso genio politico sempre alla destra del Führer. Colui che istituì la Gestapo nell’intento di sbarazzarsi degli oppositori di regime, colui che istituì i primi campi di sterminio; colui che scelse il sanguinario Reinhard Heydrich per architettare la soluzione finale, colui che indisse la Conferenza di Wannsee nel 1942 durante la quale venne pianificata l’eliminazione degli ebrei. «Quella contro gli ebrei era una guerra da combattere per la sopravvivenza» affermò in aula: Göring, grande condottiero di una nazione sconfitta, portato alla sbarra non dall’enormità dei crimini commessi, ma dagli avversi eventi di una guerra. «La sola nostra colpa è quella d’aver perduto». Condannato a morte per impiccagione, si sottrasse all’esecuzione grazie ad una fiala di cianuro ingerita la notte precedente il giorno in cui sarebbe stata compiuta.

Il terzo uomo del Reich, il più devoto servitore di Hitler, luogotenente e suo segretario personale: Rudolf Hess, accusato di tradimento per via del tentativo di cercare la pace con gli inglesi risalente al 1941, aveva già allora mostrato evidenti segni di schizofrenia e squilibrio psichico. Nonostante ciò, i medici di Norimberga decisero che poteva comunque essere processato: pare infatti che alla base delle sue intermittenti amnesie ci fosse in realtà un’inclinazione all’autodifesa. Peraltro fu Hess in persona, invitato a parlare, a dichiararsi guarito, con stupore del suo stesso avvocato Johann J. Schätzler, che lo avrebbe considerato assolutamente incapace di sostenere un processo. Fu condannato all’ergastolo.

Julius Streicher, giornalista voce della propaganda, prototipo del perfetto antisemita, affermò davanti alla corte di non essere mai stato responsabile di alcun omicidio di ebrei, di volere solo che venissero cacciati dalla Germania. La sua pena fu l’impiccagione.

Alfred Rosenberg, definito da Jackson «intellettuale gran sacerdote della razza padrona, colui che ideò la dottrina dell’odio, che fornì le basi per l’annientamento dell’ebraismo», nominato nel luglio del 1941 Ministro del Reich per i territori occupati nell’Europa dell’Est, strenuo sostenitore di slogan come “Necessità di spazio vitale per il popolo tedesco!”, “È la cospirazione ebraica!”, primo ideologo del Partito Nazista, fu condannato a morte.

Tra i supremi vertici militari: Alfred Jodl e Wilhelm Keitel, condannati a morte; Erich Raeder, a cui fu dato l’ergastolo; Karl Dönitz, condannato a 10 anni di reclusione.

Tra i diplomatici: Franz von Papen venne assolto mentre Konstantin von Neurath fu condannato a 15 anni di carcere.

Joachim von Ribbentrop, Ministro degli Esteri in carica dal 1938, fu condannato a morte, e così avvenne per l’ex Ministro degli Interni Wilhelm Frick, per Arthur Seyss-Inquart, che regnò in Austria, e per Hans Frank, il carnefice della Polonia.

Al volgare Walther Funk, che come Ministro dell’Economia accelerò il riarmo a seguito del primo conflitto mondiale e come presidente della Reichsbank incassò, per conto delle SS, i denti d’oro sottratti alle vittime dei campi di concentramento, toccò l’ergastolo.

L’imputato più giovane, Baldur von Schirach —sommo organizzatore della Hitlerjugend, corruttore di un’intera generazione— fu colui che iniziò la Gioventù Tedesca alla dottrina dell’odio, ne addestrò vere e proprie legioni al servizio delle SS e della Wehrmacht e le consegnò al partito ormai ridotte a fanatiche e cieche esecutrici della folle volontà nazista. Fu condannato a 20 anni di reclusione.

Assenti Goebbels e Himmler, Hans Fritzsche —popolare commentatore radiofonico— si trovò ad essere di fatto uno dei pochi rappresentanti reperibili del Ministero della Propaganda. Ciononostante fu assolto.

Robert Ley, capo del Fronte tedesco dei lavoratori (DAF), si era impiccato nella sua cella con un pezzo di lenzuolo poco prima che iniziasse il processo.

Martin Bormann, zelante e fanatico segretario del Führer, aveva fatto perdere le proprie tracce nel disastro di Berlino. Fu processato in contumacia e condannato a morte. Il corpo venne rinvenuto nel 1972.

Gustav Krupp von Bohlen und Halbach, capo della più importante industria bellica d’Europa, era gravemente malato. Non subì alcun processo. Suo figlio venne condannato a 12 anni di reclusione nel 1948.

Il maggior capo SS sopravvissuto al conflitto era Ernst Kaltenbrunner, stretto collaboratore di Himmler; gravarono su di lui ingenti responsabilità riguardo i campi di sterminio ed i crimini perpetrati da SS e Gestapo. Fu condannato all’impiccagione.

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Quello di Norimberga non fu il primo dei processi che avrebbero visto come imputati i grandi gerarchi del Reich, né fu l’ultimo. Già nel 1944 si erano svolti alcuni processi, benché sommari. Norimberga costituisce dunque la seconda fase della giustizia post-bellica, definita dal ricorso a procedimenti di durata superiore, con maggior possibilità di difesa per gli imputati, quindi più equi. Al primo, tenutosi tra il 1945 ed il 1946, seguirono altri dodici processi di Norimberga.

Grande merito di questo evento di svolta epocale fu certo quello di aver stabilito un precedente giuridico tale per cui in futuro risultasse in qualche modo più facile salvaguardarsi da mali così grandi; mali che sprofondano e atterrano l’umanità nell’oblio — mali dell’uomo dimentico d’essere umano.

Marta Clinco
@MartaClinco

Marta Clinco
Cerco, ascolto, scrivo storie. Tra Medio Oriente e Nord Africa.

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