Del: 15 Aprile 2014 Di: Giulia Pacchiarini Commenti: 0

Vittorio Arrigoni era un volontario. Era anche un reporter, scriveva per più testate, aveva opinioni risolute, che non esitava ad esprimere, per cui si batteva, ma più di ogni cosa era un volontario. Così era nato, così si era appassionato a quelle realtà eviscerate dall’uomo, trasfigurate da guerriglie quotidiane, soprusi, e in mezzo a questi ultimi se ne è andato, ucciso da chi prova più rabbia che fastidio per questi volontari che si interessano, osservano, sistemano, costruiscono.


La sua prima volta nei panni scomodi e sporchi del volontario è nell’Europa dell’Est, a vent’anni, con l’Ong IBO, lavora con profughi di guerra e senzatetto. Poi, dopo alcuni anni, si sposta in Africa, opera con la cooperativa Ong YAP in centri di socialità e centri sanitari, tra Tanzania, Togo e Ghana.
Nel 2002 giunge per la prima volta a Gerusalemme tramite International Solidarity Movement ed è lì che, interessandosi alla causa palestinese, scrive le sue prime corrispondenze, schierandosi apertamente contro la politica autoritaria attuata da Israele verso la popolazione della Striscia di Gaza e criticando fortemente l’autorità di Hamas nella Striscia di Gaza e quella di al-Fath in Cisgiordania. Per queste ragioni e per la possibilità che prestasse testimonianza presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, contro i crimini di guerra compiuti dallo Stato d’Israele, è inserito nel 2005 nella lista di coloro che sono sgraditi al paese.
Nello stesso anno è perciò fermato alla frontiera con la Giordania da militari israeliani, interrogato ferocemente, dopo una rassicurante telefonata con l’Ambasciata Italiana, viene trascinato su un autobus e nel breve tragitto che separa la sede dell’interrogatorio dalla frontiera Giordana, picchiato dai militari e scaricato a terra. Verrà soccorso da soldati giordani e ascoltato in merito alla vicenda dal senatore Sauro Turroni. Poi più nulla.

A questo punto Vittorio trascorre qualche anno lontano da Gaza, tra Congo e Libano, terre più sicure per lui, ma già nel 2008 tenta e riesce a ritornare a Gaza dove si stabilisce come attivista umanitario e riceve la cittadinanza onoraria palestinese. Qualche mese dopo viene ferito mentre tenta di difendere alcuni palestinesi, incarcerato per sei giorni, in un carcere di Ben Gurion e poi nella prigione di Ramle di cui scriverà “Ma vengo da Gaza, a essere incarcerato in fin dei conti ci ero abituato. Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo, per volontà israeliana. Tutte le industrie hanno dovuto chiudere, più dell’ottanta percento della popolazione vive sotto la soglia di povertà, a Gaza si registra il più alto tasso di disoccupazione del mondo, non c’è corrente elettrica, ne carburante. Gli ospedali necessitano di medicinali, la stragrande parte della popolazione di viveri, e beni di prima necessità. I soldati israeliani mi hanno prelevato dalla prigione a cielo aperto di Gaza solo per condurmi in una delle loro prigioni più piccole, dove quantomeno, a differenza di Gaza, servivano puntualmente un rancio, e c’era per quasi tutto il giorno energia elettrica e acqua potabile”. Nel carcere mette in atto, insieme ad altri attivisti, lo sciopero della fame per la liberazione dei palestinesi difesi giorni prima. Liberato, viene di nuovo espulso, ma rientra con il movimento Free Gaza il 21 Dicembre 2008.
Intanto viene assunto come reporter dal Manifesto, Radio 2, Radio Popolare e PeaceReporter, scrive, spesso si scontra con istituzioni, con intellettuali, ma non smette. Sul suo blog, ancora attivo, vi sono testimonianze di tante giornate trascorse a “Gaza city” come diceva lui. A volte vi è qualche commento a ciò che accade in Italia, a volte lettere di altri, immagini, video, alcuni fanno anche sorridere, altri si osservano in silenzio – sempre si intuisce il suo personale modo di percepire e raccontare quei luoghi.

Vittorio viene ucciso nella notte tra il 14 e il 15 Aprile 2011.
Nessuna rivendicazione.
Per il suo assassinio vengono condannati quattro uomini, altri due muoiono in un conflitto a fuoco durante la cattura nel campo profughi di Nuseirat, tutti legati a gruppi jihadisti definiti “impazziti”.
Uccidono l’uomo per uccidere il simbolo, per abbattere quell’ostacolo che iniziava a diventare piuttosto irritante, anche se dall’altra parte, in Europa, non molti si rendevano conto del rischio che correva, di quanto fosse importante per il popolo palestinese quell’uomo che con altri lavorava e raccontava, dava voce – dava la sua voce.

Nei suoi testi, quelli che ci ha lasciato nel blog, quelli che pubblicava su carta stampata, prima di firmarsi ripeteva sempre una frase, un monito, rivolto a chi aveva terminato di leggere le sue parole, a chi lo pubblicava, a se stesso: “Restiamo Umani”.

È questa probabilmente la difficoltà più grande di chi sceglie la professione, perché di professione si tratta, con tanto di credenziali e formazione, dell’Attivista Umanitario, del Volontario. Che ci si trovi a Gaza, o nelle periferie milanesi, che ci si batta per cause ambientali o per la sopravvivenza di un popolo, di un’etnia, di un genere, di una città. Restare umani è difficile quando nei contesti in cui si vive la realtà prende a calci in faccia i principi, quando si vedono corpi menomati da mine, menti distorte da una folle razionalità, è difficile quando non si hanno a disposizione i servizi primari, quando si è lontano dalle persone più care, quando si va contro sé stessi, contro le proprie certezze, i propri pregiudizi, le proprie paure.
Restare umani significa rimanere legati a quell’umanità che ha invitato a partire, a lasciare tutto, ad andare là dove è richiesta la propria presenza come essere umano, con le proprie competenze, di medico, di reporter, di ingegnere, di persona che percepisce la necessità di esserci – proprio lì, proprio in quello sfortunato momento.
Perché? Perché rinunciare a un’esistenza piacevolmente rilassante, o perlomeno agitata dalle turbolenze di una quotidianità? Perché mettere anni e anni di studio, di denaro, al servizio di una causa, di un paese magari lontani, magari vicini ma così idealmente lontani da sé? 
Perché è un’esperienza che voglio provare.
Perché ne hanno bisogno.
Perché ne ho bisogno.
Risposte in realtà non ce ne sono. È così, è giusto così, è giusto così per la mia vita.
Forse anche Vittorio Arrigoni, Vick avrebbe detto così, lui che tanto ostinatamente era voluto tornare a Gaza, nonostante l’espulsione, nonostante le minacce e i pestaggi.
Era così, lui doveva stare in quella fetta di terra, raccontarla, era questo che voleva, conosceva i rischi, ma il senso della sua presenza era più forte e indispensabile di qualunque grida o macchia di sangue, inclusa la sua.
È stato ucciso: per questo vi è stato un processo e ancor prima un funerale, a cui nessuna istituzione italiana ha partecipato, mentre in molti da tutta Europa sono venuti per rendergli omaggio, con il rispetto di chi sa quale era il suo ruolo – come lo sapeva lui.
Sono passati tre anni.
Che nessuno osi dimenticare quel volto, che nessuno osi dimenticare i volontari, che nessuno osi dimenticare Vittorio Arrigoni.

“Personalmente, io, Vittorio Arrigoni, dichiaro che sono un leone.
Che più mi bastonano, più mi incarcerano, più rafforzano la mia determinazione nella lotta per la difesa dei diritti umani. Non è stato un gioco per Gandhi e i suoi scrollarsi di dosso l’occupazione inglese, nè per Mandela sconfiggere l’apartheid che imperava in Sud Africa. Non saranno per me le ferite che ho riportato in questi mesi a Gaza, né la mia ultima detenzione, a farmi indietreggiare di un solo passo verso il percorso di lotta civile e non violenta che ho intrapreso, una questione morale che significa libertà per i palestinesi, e contemporaneamente pace e sicurezza per gli israeliani.

Restiamo Umani”

Giulia Pacchiarini
@GiuliaAlice1
Illustrazione CC Gianluca Costantini
Giulia Pacchiarini
Ragazza. Frutto di scelte scolastiche poco azzeccate e tempo libero ben impiegato ascoltando persone a bordo di mezzi di trasporto alternativi.

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